
Scrivo questo post il giorno della “festa della mamma” perché questa è la più bella che ho avuto negli ultimi 23 anni. E so già che la prossima sarà meglio!
Il mio primogenito, che ha appunto 23 anni, il prossimo ottobre ci renderà nonni mantenendo quella che penso sia la nostra migliore tradizione di famiglia: ne avevo 23 quando è nato lui; mia madre 19 quando sono nata io; sua madre 23 quando è nata lei; sua madre 29 quando è nata lei (ma a difesa della bisnonna Argia, la nonna Liliana era la sua quarta figlia).
Siamo gente che ha fretta di avere tutto e subito, un po’ incosciente agli sguardi esterni che vedo indiscretamente perplessi quando racconto che ho avuto Federico mentre ero ancora all’università e che anche a lui manca un anno per finire gli studi.
Ma, cara gente dallo sguardo perplesso e indiscreto, sappi che…
avere figli da giovani e diventare nonni giovani ha due vantaggi:
- hai l’energia per seguirli al meglio e quindi goderteli davvero. Avendo figliato a 23, 28 e 39 anni lo posso certificare personalmente con bollo di ceralacca: ho provato tutto il range di età e so di cosa parlo.
Per fortuna il terzo è nato buono come il pane e fermo come un sasso già di suo, perché se avesse avuto metà della personalità e della voglia di bruciare calorie del primo, francamente credo che avremmo dovuto darlo in affido.
Se anche a Federico e Caterina capiterà un bimbetto che fino ai sette anni va ad infilarsi nel loro letto alle 2 di notte, e alle 4 li sveglia per dirgli “scusate, mi ero assopito”, avere meno di 25 anni gli tornerà di molto bene.
(A proposito di cose che tornano, caro Fede: what goes around comes around; si chiama karma e vince anche a Sanremo).
- prima arrivano le cose belle > prima te le godi > più te le godi. Il sillogismo più elementare e lapalissiano.
Nel mio caso, avrò un bambino piccolo da adorare tra qualche mese: me lo sento già tra le braccia, sento il profumo della sua testolina e il suo morso sbavato da dentizione incipiente sul mento. Sento anche la puzza del suo pannolino, e mi piace anche quello: amo i bambini piccoli, le loro mani cicciotte, il loro costante stupore, poter godere dell’incomparabile spettacolo di una cosa nuova imparata ogni giorno.
Anche se non vivrà vicino a noi, il nipotino in arrivo mi regala la gioia di non avere interruzioni nel ciclo di accudimento di un bambino, e di non conoscere la sindrome da nido vuoto.
Per dire: sono una che almeno una volta al mese sogna di trovare un neonato abbandonato e di portarmelo a casa e adottarlo.
Sono quasi patologicamente materna – o almeno così sembrano aver pensato gli psicologi che mi esaminarono quando ero ricoverata mentre aspettavo Federico: avevo perso 4kg in tre settimane a forza di vomitare. La chiamarono “iperaccettazione della gravidanza“.
More is more
Non so descrivere la felicità e l’orgoglio che ho letto negli occhi dei miei genitori quando hanno scoperto che a breve saranno bisnonni. “Cosa posso volere di più dalla vita?” si è chiesto mio padre, guardando verso il cielo, autogratulandosi.
Ci ho rivisto l’estasi dei miei nonni, il rapimento con cui osservavano i miei figli piccoli e la gratitudine che avevano per me, che sembravo averli prodotti solo per il loro piacere.
La stessa che io e mio marito proviamo già nei confronti di Fede e Cate – con un’aggiuntina mica da niente: sappiamo che anche loro tra poco conosceranno la felicità più bruciante che si possa provare e… siamo felici per loro!

Insomma, fare figli presto ci ha premiati tutti – anche perché è stata una specie di cordata.
La famiglia ha fatto quadrato e aiutato, nelle varie generazioni, gli sposini giovani che si erano presi la briga di elargirle i nipoti.
Non ho la pretesa di glissare sul fatto che senza la garanzia di una solidità economica alle spalle le cose sarebbero state molto più difficili. Siamo stati tutti molto fortunati.
Ma rimane una scelta da fare oppure no, e – di nuovo, parlo della mia esperienza personale sperando di dare coraggio a qualcuno a fare altrettanto – per me ha significato trovare l’incastro ottimale per avere una vita piena di gioie personali e soddisfazioni professionali.
La staffetta figli-lavoro
Ho voluto avere subito un figlio pensando di finire poi con agio gli studi; poi ero troppo innamorata di mio figlio per non voler passare ogni momento con lui invece di riaprire i libri; poi quando è andato alla scuola materna abbiamo voluto subito farne un altro, proprio per godercelo.
Così mi sono laureata sette anni fuori corso, e (e, non “ma”) non me ne sono mai pentita. Ho cominciato a lavorare immediatamente, con entrambi i figli all’asilo, serena di non essermi persa un solo giorno in loro compagnia prima che “debuttassero in società”, e di non dover rinunciare alle occasioni che mi si sarebbero presentate quando l’orologio biologico avesse cominciato a ticchettare sonoramente.
Perché sì, quando sono rimasta incinta del terzo, ho perso un lavoro a cui tenevo moltissimo: è quello che succede molto spesso, inutile dire il contrario.
Insomma, di più è di più: less is more vale quando si parla di piatti da lavare, panni da stendere, bomboniere da spolverare.
Quando si parla di famiglia che si amplia, è tutto grasso che cola, cacio sui maccheroni, ciliegine sulla torta.
O come si diceva nelle famiglie contadine di una volta, “finché si cresce, va tutto bene“.
