Top 5 del mese: 4 cose belle e una anche no – luglio 2019

Il circolo della presina e della felicità, il machiavellico cinismo con cui affronto un invito a nozze - e tre oggetti di cui non posso fare più a meno.

Indice

1° cosa bella – tre cose hanno migliorato la mia qualità di vita

Di recente ho acquisito tre oggetti che ogni giorno alleggeriscono la mia routine, e voglio condividerli con voi perché penso potrebbero servirvi almeno come ispirazione a riflettere su quello che può essere semplificato semplicemente cambiando un’abitudine o un prodotto.

La prima cosa è una borsetta di nylon così leggera che non l’avverti se non ci metti dentro qualcosa.

L’idea era di usarla per portare fuori il cane, e farci stare giusto le chiavi, il telefono, un paio di scottex per eventuali “incidenti” (non tutto può essere raccattato in un sacchettino), e appenderci la borraccia dell’acqua con cui lavo via la pipì della Shu.

Poi è diventata la mia borsa di sempre proprio perché non ha ingombro ed è leggera: ideale per far la spesa (la spesa pesa) e per andare a prendere Mario (la cartella pesa).

È di Muji, viene in quattro colori e costa 14,95€.

La seconda cosa è un aspirapolvere senza filo e senza sacco: avevo già un Dyson che adoro, ma che restando acceso solo per 20 minuti scarsi mi serviva per pulizie istantanee e per le scale, da compensare con uno di quei carri armati da trascinare, con il filo da staccare e attaccare ad ogni stanza, tenuto insieme da scotch e cartoni della carta igienica per fare spessore dentro il tubo…

Non avevo valutato altre marche avendo in casa la Ferrari degli aspirapolvere, finché non ho visto il modello simile della Hoover da mio figlio: snodato, più leggero e più durevole del mio.

Ho fatto quindi una ricerca su Habu per informarmi meglio. Ho letto la guida che spiega come scegliere una scopa elettrica e ho scoperto che ne esistono che arrivano a 50 minuti e che costano un quinto del Dyson: dipende tutto dalla batteria, che deve essere al litio e avere un numero alto (sopra il 22; non chiedetemi cosa significa, perché: scienza).

Ho così comprato un Rowenta iperleggero per 135€, che ha pure le lucine sulla spazzola per vedere se raccogli tutti i peli di cane e di gatto, e che dura 45 minuti.

Ho eliminato il carro armato di Genova e quello della casa al mare (un vero pezzo di archeologia industriale), dove ho portato il Dyson, più che sufficiente a pulirla alla perfezione, e ora, ovunque mi trovi, non trascino più niente e sbrigo le faccende molto più in fretta.

La terza cosa, in contraddizione con la leggerezza che caratterizza le prime due, è un pesante spremitore manuale di ghisa: un iconico, immortale attrezzo da cucina come quelli che si usano in Sicilia, in tutto il Medio Oriente e in India per spremere agrumi e melagrane in un’unica silenziosa mossa, semplicemente abbassando una leva.

Lo trovo bellissimo e di un’efficienza sorprendente: va visto quel che tira fuori da un limone in tre secondi, senza elettricità e – lo ripeto – senza rumore. Il silenzio mi incanta.

Costa circa 60€ e si compra su Amazon; due amiche me lo hanno visto usare in casa e lo hanno comprato subito anche loro.

Un suggerimento: se vi interessa un oggetto simile, ovunque lo acquistiate fate un buon investimento e prendetelo solo se è tutto in metallo, scegliendo il più pesante che trovate; altrimenti avrete fatto un cattivo investimento non solo perché le parti in plastica prima o poi si romperanno, ma anche perché lo spremitore si ribalterà mentre lo usate.

2° cosa bella – come lo stand della limonata

“La postazione” da gamer di Mario, futuro sud-coreano.

Bella tutti, ragazzi.

I video di mio figlio, lo youtuber (ho un figlio fotografo, un figlio comico e un figlio youtuber: dove sono finiti i buoni vecchi posti fissi alle poste o i medici in famiglia?), iniziano con “bella”.

Ha 10 anni, il suo blog, il suo Instagram, il suo canale YouTube.

Si chiama tutto The Recinsion – recensioni di un bambino per bambini! perché recensisce videogiochi (e qualche libro e film); occuparsene sta rendendo enormemente felice lui, e di conseguenza me.

Tanti lamentano che la tecnologia stia abbrutendo la generazione dei nativi digitali, a cui mancherebbero gli stimoli per crearsi dei passatempi come facevano i baby boomer o i gen x che giocavano a nascondino, si rincorrevano in bicicletta e mettevano su bancarelle di giornaletti e limonata sul marciapiede.

Beh, devo dirlo – mi sembra sempre molto ingeneroso e pigro generalizzare così: penso che siamo noi a non saper apprezzare le potenzialità dei mezzi che hanno disposizione i nostri figli, e che la creatività non si esprima certo solo con carta, forbici e matite.

Mario e i suoi amici filmano, montano, musicano, doppiano, “effetti-specializzano” (cit.) i loro video scovando e imparando a usare app gratuite; parlano di copyright e di piano editoriale, programmano le loro pubblicazioni con le uscite dei nuovi giochi per essere nei trending topic, sanno quanto monetizza un video pur avendo un canale con 33 iscritti (io ne ho 17.000 e non lo sapevo finché non hanno fatto loro una ricerca di mercato).

Mentre giocano sviluppano tantissime competenze, una lungimiranza e una maturità che francamente io, che di bancarelle di giornaletti e limonate ne ho fatte TANTE, non avevo. In pratica giocano a “il denaro non dorme mai” senza aver mai visto Wall Street.

Penso che dobbiamo dargli tutti più fiducia ed accettare che i tempi sono sì cambiati, ma che questo non significa che siano cambiati in peggio.

3° cosa bella – il circolo della presina e della felicità

I social, figli della tecnologia, sono altrettanto vilipesi – difficile dire che succede a torto, quando basta guardare una ricetta di ravioli postata su Facebook e i flame che si accendono perché ALLORA SE GLI DIAMO I RAVIOLI I BAMBINI MANGIANO I CARBOIDRATI! #noncelovoglionodiree!!1!

Però, a proposito di flame e fiamme, quello che possiamo fare per contrastare gli animi più accesi è coltivare le relazioni virtuose che nascono in rete, e poi condividerle e amplificarle.

Ho un bellissimo esempio concreto di come trattare le cose scottanti:

queste presine fatte all’uncinetto che mi ha mandato Mariella, una donna di Roma con cui ho stretto un’affettuosa amicizia attraverso Instagram, pur non essendoci mai incontrate.

Mariella è una di quelle persone con le manine d’oro, che usa per cucire, ricamare, lavorare a maglia e fare pure acquerelli.

Sta affrontando il periodo più duro della sua vita, ma trova conforto e distrazione in un social che le ha dato modo di ampliare i suoi orizzonti – proprio come tutte le persone che lo usano per lo scopo che lo ha generato.

È motivo di sconfinato orgoglio per me sapere che ogni tanto la faccio sorridere, e che tra i commenti sotto i miei post ha trovato altre amiche che la stimano quanto me.

Infatti ho subito condiviso le foto del mio regalo e per amplificare la sua portata ho chiesto a chi mi segue di dichiarare il proprio amore per le “presine delle nonna”, mandandomi delle foto (che ho prontamente ricondiviso).

In un vortice di punti a catenella, sono arrivate:

  • presine dall’aspetto “Germania dell’Est 1954” (tinta unita sommessa, quadrate, molto efficienti), pop (a forma di ScoobyDoo), a forma di vestito da bambola (quinceañera!)
  • storie toccanti di vecchiette che intrecciano i classici dischi con lana avanzata e li regalano alla postina gentile, o al banchetto per raccogliere fondi per un asilo, oppure che si portano il segreto della lavorazione ottimale nella tomba piuttosto che passarla alla nuora, o ancora che ne producono come fabbrichette per la disperazione di tutti i parenti (mi sono stati offerti interi scatoloni di presine – grazie, come se avessi accetato!)
Le presine fatte dalle mamma di @Magicamoo
  • tip fichissime, come quella di Marianna @vivere_senza_rifiuti di usare le presine come spugnette per la cucina sfruttando le loro venature per pulire meglio, da buttare in lavatrice alla bisogna, sostituendo quelle gialle del supermercato che sono di fibre irriciclabili (per chi ha voglia di prendere in mano l’uncinetto, quelle più efficaci sono i tawashi giapponesi da fare con il tutorial di School of Scrap).
I tawashi di Marianna

Ah, questo mese ho anche ricevuto in regalo due piante di avocado, e me ne è stata promessa un’altra, e anche un’aloe… sempre nel nostro meraviglioso circolo delle instagrammer e della felicità.

Ma ve ne parlerò in agosto, perché ho un piano… di quelli ambiziosi 🙂

4° cosa bella – scene da molti matrimoni

Foto © Ian Weldon

L’autodefinitosi “non-fotografo-di-matrimoni” Ian Weldon è diventato celebre per i suoi servizi nuziali in cui immortala tutta la verità dietro i posati dei parenti in formazione-squadra-di-calcio, gli sposi che si rincorrono sulla spiaggia vestiti lui come un cioccolatino e lei come una bomboniera, e le pinterestate delle naked cake con le ghirlande di fiori shabby chic.

Foto © Ian Weldon

A un matrimonio ci siamo stati tutti almeno come invitati, e sappiamo bene quanti imprevisti, quante forzature, quanti scazzi e quanta bellissima umanità che si vuole bene e si tira le frecciatine si coagulino durante una festa di nozze.

Foto © Ian Weldon

Sposi e famiglie immediate sono così sotto stress da iper-controllo (il velo di lei si è impigliato sotto la porta, la fronte di lui è sudata e in foto brillerà come un faro da stadio, la paggetta si è vomitata addosso nelle curve per arrivare alla chiesa) che proprio loro, i protagonisti, non sono in grado di apprezzare la differenza tra il nastro di zucchina candita sul canapé e la sella di vitello al Porto.

Foto © Ian Weldon
Foto © Ian Weldon

Weldon tutto questo lo coglie e lo mette negli album, e ora anche in un libro e una mostra alla Martin Parr Gallery di Bristol.

Foto © Ian Weldon
Foto © Ian Weldon

Sono foto davvero belle perché sono toccanti e genuine: un buon titolo sarebbe potuto essere “Ti ho sposato per allegria”. Ma era già preso 🙂

Foto © Ian Weldon

Una cosa che anche no – the wedding guest, he beats his breast

“La ballata dell’antico marinaio” di Coleridge ha probabilmente lasciato un segno profondo su chiunque abbia fatto l’esame di maturità: una luungaaa, delirante poesia in cui un vecchio pazzo ferma per strada un invitato a nozze e gli fa una testa così sulle sue sventure nautiche scatenate dall’uccisone di un albatros.

Immortali due righe:

  • “Water, water everywhere, and not a drop to drink” – acqua, acqua dapperttutto e non una goccia da bere – me lo rimprovera sempre mio marito quando andiamo in barca, perché ho notoriamente il braccino corto con le bevande…
  • “The wedding guest, he beats his breast” – l’invitato a nozze si batte il petto per la disperazione: l’antico marinaio pensa che sia per empatia con le sue sfighe, tutti gli altri per il bottone allucinante che gli è stato attaccato…

La mia tesi è che grazie a Coleridge è da due secoli che la figura dell’invitato a nozze è ufficialmente codificata come quella della persona che deve soffrire

Perché diamo a Cesare quel che è di Cesare: si sposa qualcuno e oltre a fargli un costoso regalo ti tocca perdere una giornata della tua vita a:

  • aspettare l’arrivo degli sposi, la fine della cerimonia degli sposi, le firme degli sposi, le foto degli sposi
  • mangiare per sei ore vicino a parenti e amici non tuoi perché “i tavoli misti sono più divertenti”
  • spostare tre volte la zia formato Sora Lella dalla tavola alla poltrona dove può farsi aria
  • ubriacarti nella migliore delle ipotesi
  • dover accompagnare a casa il nonno e l’amica ubriachi.

Mio marito è molto franco con tutti gli inviti che ci arrivano: “se mi disinviti, ti faccio regalo doppio e tu risparmi pure il mio coperto e quello di mia moglie – è la perfetta win-win situation”. Ormai gli inviti che ci arrivano sono rarissimi: chissà perché.

Io penso che quella che manca sia un’etichetta nuziale data per assodata: dopo la cerimonia, tutti vanno alla bicchierata/pranzo/apericena/banchetto.

Tutti, subito, e per primi gli sposi.

No che arrivano quattro ore dopo perché sono andati a rincorrersi in spiaggia mentre vecchi e bambini si muorono di fame e di caldo, e gli invitati tra i 20 e i 50 si ciuccano di prosecco fino a vedere i draghi.

Mio suocero ha un hotel che nella “stagione delle spose” ospita matrimoni tutti i weekend, e da 26 anni vedo la disperazione, la noia, l’insofferenza di centinaia di persone tirate a lucido, sui tacchi, nel vestito comprato apposta che non rimetteranno mai più, con il cappello a tema deciso dalla neosuocera, che aspettano dalle 12 fino anche alle 16 che gli sposi arrivino per poter mettere mano all’antipastino misto della casa, tre primi, tre secondi, sorbetto, torta degli sposi, caffè e ammazzacaffè, piccola pasticceria e bicchiere della staffa prima di poter riprendere la via di casa a 12 ore da quando l’hanno lasciata…

Ma questi son doppi turni da miniera, ci vorrebbe un sindacato dei wedding guest!

E tutto per via delle foto con il drone, della scarpetta baciata dallo sposo, della giarrettiera mostrata dalla sposa, della cravatta di lui simpaticamente tirata da lei per portarlo nella loro nuova vita: delle scenette costruite che non fanno più sorridere nessuno.

La soluzione: servizi come quelli di Weldon, che ricorderanno a tutti com’è davvero andata nel giorno più bello. Il brindisi mal riuscito, un vero bacio con la lingua, la tartina caduta sul vestito, il mascara sbavato dall’emozione, lo zio addormentato sul divano, la felicità della missione compiuta.

Se dovessi sposarmi adesso, farei così.

Anzi, farei di più: per essere davvero una buona persona, non inviterei nessuno.

Appendice: diceva D.H. Thoreau

“Beware of all enterprises that require new clothes” – diffida di tutte le iniziative che richiedono vestiti nuovi.

Una regola che ho fatta mia, e che dedico agli invitati a nozze di tutto il mondo, ché hanno già tanto da cui difendersi.