Chi era mio padre, Giuseppe Carnevali

Giuseppe Carnevali

Ero appena tornata dalla Campagna (con la C maiuscola, perché è così che chiamiamo il posto di famiglia dove aveva casa lui), dove avevo preso un paio di ciocchi dalla sua legnaia per portarli in città; il fuoco illuminava il mio caminetto, le castagne nella padella bucata promettevano quel rito autunnale che consumavamo sempre insieme in questa stagione: le caldarroste.

Ho messo mano al telefono per mandare un video a mio padre, immaginando contemporaneamente la sua reazione (un gran sorriso) e la sua risposta: il fuoco nel suo camino, o nel cielo dietro i colli di Camaiore, ché adesso è tutto uno scambio e tramonti cangianti nella chat di famiglia.
E poi mi sono ricordata: mio padre è morto 20 giorni fa.

Studiando le olive prima della raccolta

Mio padre si chiamava Giuseppe Carnevali, come il suo nonno paterno. Il bisnonno Peppino aveva delle navi (che, in quanto antifascista, gli vennero tolte… ma è quella è una storia per un’altra volta), suo figlio Mario si fece ingegnere navale, e così fece anche mio padre.
Il quale, laurea in mano, si presentò dal suo, di padre, dando per scontato di entrare in studio con lui.
Mio nonno Mario però lo scioccò: non aveva alcuna intenzione di dargli un lavoro, doveva trovarselo e farsi da solo.
Questa cosa mio padre ce l’ha raccontata solo di recente: non avevo mai sospettato che una persona così fieramente indipendente e anti-nepotista come lui avesse potuto mai pensare di lavorare in famiglia – non era così che aveva cresciuto me e i miei fratelli!

Penso infatti che l’insegnamento più importante che ci abbia dato (insieme a “se non hai niente di gentile da dire, è meglio che stai zitta”) sia questo: di perseguire le nostre inclinazioni, facendo la gavetta, con umiltà, e di essere responsabili di tutti i nostri fallimenti per poter raccogliere tutti i nostri successi.

Darci i mezzi per imboccare la strada che volevamo, senza pressioni, è stata la sua missione di genitore.

1978

Comunque un lavoro se lo trovò: diventò, giovanissimo, il direttore di un cantiere famoso per i suoi yacht di lusso, tra cui il leggendario Nabila di Adnan Kashoggi, “costruito” proprio da mio padre. Aveva 32 anni quando fu varato, e mi ricordo bene come eravamo vestiti tutti a festa quel giorno: io avevo un ensemble a fiorellini da Holly Hobby, con tanto di grembiulone e maniche a sbuffo. Mia madre un bellissimo vestito di maglina di seta dorata, mio padre in doppio petto, mio fratello camicia bianca e pantaloni blu.

È lavorando in cantiere che contrasse la sua malattia professionale, scoperta solo quando aveva 67 anni e la salute già compromessa: cancro del rene, derivato dall’esposizione alla polvere di amianto.
L’espressione dei suoi occhi, quando pensava agli operai “che uscivano dai meandri dello scafo quando suonava la sirena del pranzo, e si avviavano verso la mensa con il naso imbiancato”, quando pensava a tutte quelle persone di cui non sapeva più niente… quell’espressione di sofferenza, di impotenza, di preoccupazione immense, non la scorderò mai.

10 giorni dopo la sua morte, ci siamo trovati nella sua casa in Campagna per accogliere gli amici per un saluto (nessun funerale per l’ingegnere che voleva donare il suo corpo alla scienza!).
Mi hanno avvicinata due signori, molto commossi: padre e figlio.
Il primo aveva lavorato in cantiere con mio padre, anche lui in un ruolo più dirigenziale che operativo. Ha lo stesso cancro di mio padre.
È stato un incontro molto toccante, perché proprio su questi due sconosciuti con cui ho sentito un’immediata connessione ho riversato il mio dolore per quel lavoro che mi ha derubata della presenza di mio padre mentre crescevo (perché lavorava TANTO) e che poi me l’ha portato via definitivamente.
Tra le braccia di quel signore ho pianto il mio pianto più forte, ad oggi.

Poco dopo la consegna del Nabila, mio padre decise di mettersi in proprio per fare il consulente, e provare a realizzare alcune sue idee per migliorare la sicurezza di chi naviga.

Furono anni di grandi ristrettezze per noi: per dirne una, la nostra macchina aveva i buchi per la ruggine sul pavimento, e si vedeva l’asafalto sotto mentre si viaggiava.

Ma questa è una rara favola a lieto fine, à la “stay hungry, stay foolish”.
La faccio breve, e lo scrivo in ottica SEO: Giuseppe Carnevali ha inventato la cartografia elettronica. Non solo: ha mappato tutti i mari e gli oceani inventando un sistema che raccoglie dati sui rilievi sott’acqua mentre viene usato da diportisti, navi commerciali e militari. La conseguenza? Incalcolabile la cifra delle vite salvate, delle fuoriuscite di carburanti e dei naufragi evitati.

Tutto questo molto, molto prima che nascessero i navigatori per automobili che usiamo ogni giorno. Penso di potermi vantare che il mio cognome abbia avuto un ruolo anche in questo (pensate a lui stasera, quando chiedete a Waze qual è tragitto meno trafficato per arrivare in pizzeria!).
Non è un caso che la sua intuizione scaturì dal film “Goldfinger”, e più precisamente da una scena in cui James Bond localizza i suoi nemici sul cruscotto, attraverso una mappa elettronica: una fantasia cinematografica che non aveva nessun corrispettivo nei primi anni ’80, quando – sembra incredibile pensarlo! – in mare ci si orientava ancora con sestante e compasso.

Credeva fermamente che qualsiasi progresso, per essere tale e portare quindi beneficio, dovesse essere capito e usato facilmente.

Per questo testava ogni nuova versione del sistema Navionics (cartucce e plotter prima, app in crowd-sourcing dopo) con persone di tutte le età. Soprattutto con i bambini, i nostri e quelli di amici, colleghi e parenti:

giuseppe carnevali
Aveva sempre due telefoni, ed era molto interessato a ricevere critiche costruttive dai nipoti…
giuseppe carnevali
… soprattutto dai nativi digitali!

In questi ultimi anni, mio padre insisteva a definirsi inventore, anziché ingegnere o imprenditore. Si divertiva molto a proporsi con i suoi pochi, candidi e spiumati capelli sparati a raggiera intorno alla testa: “Che dici, li devo tagliare? Non sembro un po’ Einstein, così?”. Voleva sentirsi dire che sì, sembrava un po’ Einstein e che no, non doveva tagliarli.

Pur avendo rivoluzionato la navigazione, la cosa di cui andava più fiero era l’attività della Carnevali Foundation.

Questa è nata quando ha aperto una sede della sua azienda in India: appena arrivato, decise di dare un contributo alla comunità locale sovvenzionando la costruzione di una prima scuola per 150 bambini.
Ad oggi la Fondazione ha finanziato la costruzione e il mantenimento dell’attività di 15 scuole (direzione curricolare, corpo insegnanti, mense, educazione sanitaria, scarpe per i bambini così a scuola possono arrivarci) tra India e Nepal, e diplomato più di 4000 studenti.
I primi ad essere entrati in questo circuito virtuoso sono ora laureati, hanno master e PHD, e siedono nel board della fondazione.
Uno di loro ha progettato e installato i pannelli solari per la scuola dove era entrato da piccolo.
Della Fondazione, diceva che era la cosa migliore che avesse fatto nella sua vita.

E che vita piena!
Due mogli, tre figli, cinque nipoti e un bisnipote.
I nipoti li teneva in braccio mentre sciava e mentre guidava il trattore, con il più grande sorriso che si potesse vedere sulla faccia di un nonno.

Quest’estate, sapendo che aveva ancora poco tempo, ci ha portati tutti in Islanda: sono sicura di poter parlare per tutta la famiglia quando dico che è stato il regalo più bello che abbiamo mai ricevuto, e il viaggio più bello che faremo mai.

In Islanda con Einstein

E io… con questa sensazione immanente che c’è qualcosa di grosso che manca, io mi sento come il buco di una ciambella.
Perché la testa mi va ancora automaticamente in pensieri come “questo pane secco lo trito, così faccio i passatelli al babbo per Natale”, o “questa vignetta la metto su Facebook, farà ridere il babbo”.
Così, visto che a ricordarmi che non posso mandargli il video delle castagne nel caminetto non sono molto brava, ho cominciato a fare la lista mentale delle cose che piacevano a mio padre, per non dimenticarmene mai.

Cose che piacevano a mio padre:

Il fuochista
  • Le castagne: arrosto, bollite, affumicate o secche; a Natale gli ho sempre regalato un sacchettino di castagne secche: ne teneva qualcuna in tasca mentre sciava per rinfrancarsi. Bastava dire la parola “castagne” che diventava felice… e accendeva un fuoco.
  • Il fuoco: ogni scusa era buona per accenderne uno, e per studiare come renderlo perfetto. In ogni casa della sua vita aveva voluto un caminetto: se non c’era, lo aveva costruito; se c’era, lo aveva restaurato. Con grande scorno non è mai riuscito a far lavorare bene quello gigantesco della casa in Campagna, che tira male e fa fumo, ma almeno ha dato vita a molte stimolanti conversazioni tra gli ingegneri, parenti, amici, geometri, architetti e maestranze. Resterà la sua opera incompiuta, la sua Sagrada Familia.
  • Tagliare l’erba: lo prendevamo in giro dicendo che era un piromane, finché non si è trasferito in Campagna ed è venuto fuori Il Grande Rasatore che era in lui. Tutti quei campi meravigliosi di erba alta e garofanini e fiordalisi e margherite e botton d’oro in cui sparivo da bambina, li ha trasformati in campi da golf… senza buche. Perché gli serviva una scusa per andare in trattore, zappatrice, tagliaerba: se aveva le ruote grosse, se faceva troppo rumore per poter parlare, se poteva farlo guidare ai nipoti in età prescolare, lui lo comprava.
  • Ma anche i campi in fiore: ci sono voluti anni, molte foto di fiori selvatici con le apine e le farfalle, molti link passivo-aggressivi a programmi di giardinaggio e associazioni che fanno rewilding per convincerlo a lasciare stare prima un prato, poi un altro, fino ad arrivare a programmare la semina di piante che attirano gli impollinatori per l’anno prossimo.
  • Le aringhe affumicate: altro regalo di Natale immancabile. Con le uova, scelte con attenzione nei rari banchi del mercato che ancora le tengono. Si sedeva a tavola con la solennità di un chirurgo e le sezionava con metodo e anticipazione: “Pulisco l’aringa”, annunciava, ed era un po’ come un programmatore che fa una sessione di coding.
  • Beatles e pancake: la domenica mattina iniziava con “Help!” e i suoi pancake cotti in una pentola quadrata di alluminio che andava ad elettricità. Uso ancora la sua ricetta.
  • Le uova sbattute: il sabato o la domenica pomeriggio, quando tornava dal lavoro (l’ho detto, che lavorava sempre?) o se aveva potuto farlo, da volare, frullava due tuorli con lo zucchero, due bianchi a parte, li univa in una spuma vaporosissima, e li mangiava con pezzi di pane secco. Ce n’era una tazza anche per noi bambini, se volevamo. Forse è la prima “ricetta” che ho imparato a fare.
  • Volare: aveva proprio una fascinazione istintiva per quello che riusciva a stare in aria. A 6 anni aveva costruito il suo primo aeromodello in balsa, e poco dopo sapeva già farne con motorini che funzionavano. Imparò ad andare in deltaplano, e prese il brevetto poco più di ventenne approfittando di una sponsorship di qualche tipo, e nel weekend andava all’aeroclub del Cinquale per smarcare le ore di volo necessarie a mantenerlo. Spesso portava anche me, e ricordo lunghe attese per avere il nostro turno, seduta al bar, mangiando certe tortine in un pirottino di carta (antesignane delle Camille) e leggendo Topolino. Una volta fece lo spiritoso: disse “adesso piloti tu, prendi i comandi” e lasciò i suoi. Il minuscolo aereo per due reagì immediatamente, io strillai, lui riprese ridendo le cloche, io non tornai mai più a volare con mio padre.
  • Andare in elicottero: sfizio degli ultimi 15 anni, sempre con un istruttore, tranne quando portava qualcuno o tentava di portare qualcuno, tipo i miei figli. Cosa che non aveva il mio permesso di fare (vedi sopra), e che invece riuscì a fare con la serpe in seno del primogenito, che in quanto maggiorenne si mise d’accordo col nonno per aspettare che io partissi per andare a fare un giro insieme. Ma mica me la sono legata la dito.
  • I miei articoli e i miei post: era dislessico e faceva molta fatica a leggere, ma si sforzava se era qualcosa che avevo scritto io. In questi giorni mi hanno contattata tante persone mai viste e sentite prima, per farmi le condoglianze, dicendomi: “Tuo padre mi mandava i tuoi articoli e le tue foto, so tutto di te, dei tuoi fratelli, dei tuoi figli, mi sembra di conoscervi da sempre”.

E io non ne avevo la minima idea.
Era più attento e presente di quanto lasciasse trasparire.

Oggi, 10 dicembre 2022, mio padre avrebbe compiuto 75 anni.
E io, io mi sento come il buco di una ciambella.

PS – se hai conosciuto mio padre, se vuoi dirmi qualcosa di lui… scrivimi@sashacarnevali.it

zuppa vegan

Crema di sedano rapa ai 3 aromi

In questa zuppa vegana il dolce e l'amaro si fondono alla perfezione con l'agrumato... e il risultato è da chef! (Bonus: è anche molto economica!)