Indice
- 1° cosa – la compresenza
- 2° cosa – tra le due scuole
- 3° cosa – che comunque, non è un paese di vecchi.
- 4° cosa – l’alocasia della nonna Mila
- 5° cosa – 5 volte 5
- Appendice per nerd delle parole
1° cosa – la compresenza
Stavo camminando con Stefano lungo le infinite gallerie del cimitero monumentale di Staglieno, sotto la luce che scendeva viola dai lucernai. Facevamo battute sconce sulla lapide di una vedova e sull’espressione di scazzo di un angelo adolescente; decifravamo la simbologia delle statue; ragionavamo di anime, di parenti che forse ci guardano da lassù e di intercessioni da quaggiù.
Io sono atea, convinta che non ci sia giudizio più severo che quello della propria coscienza e che ogni religione sia un teatro; ma quando all’entrata del “campo dei giudei” ho letto la lista dei nomi degli ebrei deportati da Genova e morti nei campi di concentramento, mi è venuto automaticamente da farmi il segno della croce per pietà.
Stefano è credente, affascinato dai mistici di ogni religione, studioso di storia, teologia e mitologia.
Un cimitero in cui passeggiare per chilometri sotto il profumo acre dei cipressi, sopra la ghiaia croccante, immersi nella polvere dei secoli… era proprio il posto giusto per noi.
Siamo amici dai tempi del liceo. Lui aveva tradotto dal latino un libro inedito di Eutropio; io gli avevo disegnato la copertina. Andavo a trovarlo a casa, in bicicletta, e siccome la strada era lunga, mi rifacevo mangiandogli tutti i marron glacé che aveva nel suo salotto, molto formale, sempre in penombra: erano incartati uno ad uno nella stagnola dorata, e me li ricordo come i più buoni della mia vita.
Abitiamo lontani da quando abbiamo finito l’università; ci incontriamo una volta all’anno, due se va bene. Ma quando ci incontriamo, non ci sono silenzi.
E insomma, stavamo passeggiando quando mi sono resa conto di quanto siano preziosi questi momenti di stacco totale dalle cose terrene (sì, c’è un doppio senso).
I momenti in compresenza con gli amici che ho rivisto in questo ultimo anno, gli amici con cui non ci sono silenzi, e c’è sempre un regalo.
Un fischietto per non perdermi in montagna.
Una chiavetta di musica (inascoltabile, ma è il pensiero che conta).
Una matrioska comunista con Breznev, Lenin, Marx e Engels che farebbe riderissimo se non ci fosse Stalin che li ingloba tutti.
Una pasta aglio-oglio gigantesca.
Una scatola di shortbread fatti in casa.
Tre piccole alocasie, una zamiculcas e una micro-kenzia in adozione causa trasloco.
Un libro, con la dedica “A Sasha, con affetto antico”.
2° cosa – tra le due scuole
“Il Pantheon presenta un pronao estastilo… sei colonne, quindi?”
“… quattro, cinque, sei: sì, sei colonne. Si sente, Sasha, che hai fatto il classico!”
C’è un’intesa speciale tra chi è reduce dal liceo classico, come tra chi ha fatto la guerra insieme.
L’aoristo, la lettura in metrica, le due versioni ogni giorno che Dio mette in terra sono una trincea molto fangosa in cui ci si scambiano pizzini con il participio passato di fero-fers come se fossero sigarette senza filtro.
È una fratellanza che ha il sapore del cameratismo.
Abbiamo visto cose, su quel Castiglioni Mariotti e su quel Rocci, che chi ha attraversato gli anni dell’adolescenza senza giocarsi un quadrimestre per colpa della polisemia e della sua sorella più cattiva, l’enantiosemia, non può immaginare.
Chiamiamola gavetta della vita, tanto per fare un’ultima similitudine bellico-militare.
Quando ero in terza media annunciai sicura ai miei genitori che scuola volevo fare: il liceo artistico. Mi ero informata, era lontano, sarei dovuta uscire di casa all’alba e tornare a metà pomeriggio, ma volevo disegnare ed ero pronta al sacrificio.
Silenzio nel tinello. Gli spaghetti che fumano dai piatti.
Mio padre ride, come quando si dà un buffetto ai bambini che non sanno niente.
“No.”
“Come, no?? Hai detto che potevo scegliere la scuola che volevo!”
“Certo: tra le due scuole. Classico o scientifico”.
Siccome neanche allora sapevo fare le divisioni a due cifre, optai per il classico (com’è andata a finire, poi, l’ho raccontato qui).
Fast-forward 40 anni.
Nostro figlio Mario è in seconda media e ha due brucianti interessi: la finanza e l’informatica. Non gli piacciono le lingue e in italiano scrive lo stretto indispensabile per arrivare al diploma. Siamo tutti sereni che la scuola più adatta a lui sia il liceo scientifico.
Sembrava che a ‘sto giro non ci sarebbero state incertezze o discussioni – che poi possono arrivare anche dopo, eh: Federico, il primogenito, scelse lo scientifico ma ora ci rinfaccia di non averlo obbligato a fare il classico (?!) e a suonare il pianoforte (?!?). Fine pena mai, con i figli.
Sennonché Mario ha scovato uno scientifico senza latino qui in città, e ora vorrebbe andare lì.
L’argomento è quindi saltato fuori davanti al pronao esastilo del Pantheon di Staglieno; e come immaginavo, Stefano, con cui condivido da sempre la passione per la linguistica e soprattutto per l’etimologia, aveva una posizione molto decisa.
Segue pippone.
Stefano: “Non è solo che con il latino impari a studiare e a ragionare, come si dice sempre: la logica la alleni anche con la matematica. Ma quello che manca a chi non lo ha studiato con metodo a scuola, è proprio la conoscenza delle parole e dei costrutti italiani. La proprietà di linguaggio si sta spaventosamente atrofizzando.”
Io: “E con lei la capacità di ragionare in maniera astratta, perché le parole formano e nutrono il pensiero, e quindi definiscono e determinano le azioni. Come io ho dovuto studiare chimica e fisica per averne almeno un’infarinatura, sono convinta che anche chi non è interessato alle lingue morte debba farsene un’idea di base; non dico il greco, ma almeno il latino sì! C’è bisogno di queste competenze ormai rare per una questione di responsabilità civica, perché ci saranno persone che useranno queste leve a proprio beneficio, comandando gli altri attraverso la manipolazione della comunicazione.”
Stefano: “Infatti come ho detto anche io a mia figlia, che latino lo fa appunto allo scientifico, non mi interessa comandare gli altri, quanto comandare me stesso: poter capire, e autodeterminarmi.”
Ci siamo insomma vicendevolmente fatti la predica pur essendo entrambi convertiti.
Però con sermoni convincenti: per questo li ho riportati qui, e vorrei sapere cosa ne pensate o qual è stata la vostra esperienza scolastica.
Una riflessione in più.
Sembra che faccia parte dell’evoluzione biologica, diventare reazionari con l’età. Mai avrei creduto di essere quella che dice a suo figlio “puoi scegliere sì, ma tra le due scuole”.
Sapendo che in realtà non gliene negherei davvero una da vocazione mistica (come un artistico), o un istituto professionale se si sentisse già chiamato a un mestiere specifico, ma sperando ardentemente che scegliesse tra le due… perché da vecchio capirà.
3° cosa – che comunque, non è un paese di vecchi.
27 ottobre, dies irae: poco più di un anno dopo essere stato approvato alla camera, il DDL Zan per arginare i reati di omotranfobia, misoginia, razzismo e abilismo è stato bloccato al Senato.
Ora, l’Italia è fatta di tante persone diverse, eppure i maschi oltre la mezza età che compongono la maggior parte del nostro Senato ne rappresentano solo una frazione: miope e autoreferenziale, l’altro non lo vede proprio.
Non vede nemmeno le sue mogli e le sue figlie, è affetta da cecità selettiva davanti alla disabilità, riconosce il diritto all’autodeterminazione solo quando deve calcolare se le conviene fare fattura o mettersi d’accordo per il nero.
Ma l’autodeterminazione di base, quella del vivere serenamente secondo la propria natura, non la registra del tutto sul suo radar.
Il problema sono la rappresentazione e la rappresentanza.
Perché tra gli adulti della Gen Z (quelli nati tra il 1995 e il 2010), 1 su 6 si identifica come LGBTQ+ (se in condizione di esprimersi liberamente: guarda caso in Iran o in Russia le percentuali sono ben diverse).
E il mondo è più loro che nostro, semplicemente perché contando da oggi, questi giovani lo abiteranno più a lungo di noi.
La soluzione è votarla via, questa frazione che non riflette la bellezza di una popolazione ricca, colorata, piena di risorse (latino a parte) come quella dei nostri figli.
Quando si legifera si decide per tutti, e tutti devono esserci a legiferare.
Ricordiamocelo bene alla prossima scheda elettorale.
4° cosa – l’alocasia della nonna Mila
Credo di poter vantare una piccola collezione di alocasie: con le tre ricevute dagli amici Davide e Marco prima del loro trasferimento in Lussemburgo, e questa in foto, che avevo adottato da casa di mia nonna quando lei è morta, sono a quattro tipi diversi.
Sì, è decisamente una collezione.
La grande, è figlia di una profuga di guerra: Mila, la mamma di mio zio (consuocera di mia nonna) dovette fuggire in pochi minuti da Zara per sottrarre la famiglia alla dittatura di Tito. Non ebbe tempo che di prendere con sé i bambini e pochissime cose, tra cui un pugno della sua terra e una piantina.
In Italia, quella piantina crebbe e di talea in talea ebbe molte figlie, distribuite tra parenti e amici.
Mi commuove moltissimo pensare a quanta strada abbia fatto e a quante case abbia donato gioia.
È in effetti la pianta a cui sono più affezionata, da quando mi è stata raccontata la sua storia.
Qui da me ha sopportato trombe d’aria, neve, invasioni di cimici, funghi e afidi.
Una vita in trincea, da cui emerge sempre vittoriosa.
5° cosa – 5 volte 5
Il 5 novembre 2016 Pietro è salito per la prima volta su un palco, lo Zelig Lab.
Il 5 novembre 2021 è andato per la prima volta in tv, su Comedy Central.
Aveva 17 anni quando ci ha detto che voleva fare il comico, e 23 quando ci ha detto che interrompeva gli studi universitari per farlo a tempo pieno.
In 5 anni precisi è passato da “vorrei” a “posso”.
Era lo scorso maggio (mese numero 5 – una koincidenza? Io non credohhh!) quando ci ha seduti e ci ha fatto il Gran Discorso della sua vita: ben preparato, con un primo, un secondo e un terzo atto; ben presentato con le pause giuste e i giusti affondi (e un piano economico), da consumato uomo di spettacolo.
Lo vedevo soffrire l’università da un bel po’, e aspettavo che prendesse in mano la sua situazione. Doveva farlo lui, doveva trovare lui il coraggio di dirlo alla famiglia.
Perché una laurea serve sempre, agli occhi di noi boomer: “E pigliati ‘sto pezzo di carta, che male non ti fa!”.
Qualche resistenza infatti l’ha incontrata, ma io sono particolarmente fiera del fatto che ci abbia messo davanti a un fatto, e non a un’istanza.
Ora, leggendo questo, suo fratello maggiore Federico starà tirando giù un mese di santi patroni, perché invece di obbligarlo a fare il classico (di nuovo, ?!?), lo abbiamo comunque obbligato a laurearsi.
Pietro tra le due scuole aveva scelto il classico, e buon pro gli ha fatto: 5 anni + 1 di bocciatura sulle versioni tutti i giorni gli hanno dato i mezzi per autodeterminarsi secondo la teoria di Stefano – e usare parole così convincenti nel suo Gran Discorso, da interrompere la tradizione di famiglia del pezzo di carta.
E se nel suo primo speciale di Netflix saprà piazzare un pronao esastilo, beh, ha questa mamma un po’ reazionaria da ringraziare.
Appendice per nerd delle parole
C’è un gruppo su Facebook che si chiama ETIMOLOGIA (origine di parole e fatti), praticamente il PornHub dove si svolgono in tempo reale le orge tra persone che si fanno le seghe mentali (e non solo mentali) sulle parole.
Un estratto da un post recente che mi è piaciuto molto:
I greci avevano più di un termine per definire il mare: ἡ ἁλς (“e als”), al femminile ed utilizzato generalmente al plurale, la “distesa salata” distinguendola dal maschile “ο ἁλς” “il sale”, dandogli così una connotazione materiale; πόντος (“pontos”), come distesa di viaggio quindi “passaggio” verso altri lidi, quindi il mare navigabile. Attraverso il latino arriviamo all’italiano ponte: il mare dunque unisce non divide per i greci. πέλαγος (“pelagos”) invece ne coglie la sua vastità e profondità: è il mare aperto. Infine θάλασσα (“thalassa”) è un concetto di carattere generale (di origine sconosciuta, forse cretese) ed ha un collegamento ad una esperienza o ad un avvenimento. Nei testi dei grandi poeti e narratori (quello più utilizzato risulta “thalassa”) questi termini potevano affiancarsi l’uno all’altro cosicché, messi insieme, moltiplicavano i rispettivi significati: materia-presenza, natura-spazio, via-avvenimento, distesa-spettacolo, e così all’infinito, come del resto le stesse visioni del mare si completano e trapassano l’una nell’altra.
(potete seguirne l’autore sul profilo Instagram Etimo Greco)
Ecco perché dico che le parole formano e nutrono il pensiero, e quindi definiscono e determinano le azioni.