Indice
- 1° cosa bella – porno
- 2°- giochi al ristorante per bambini
- 3° la lista della spesa di Michelangelo
- 4° cosa bella – quella cioccolata lì
- Una cosa che anche no (ma un po’ sì, dai) – lo zen e l’arte di bollire i fagioli
Ogni mese vi racconto le cose mi hanno colpito: nel bene soprattutto, ma anche nel male.
Il mio porno, un gioco da ristorante per i bambini, la lista della spesa di Michelangelo, quella cioccolata lì e lo zen dei fagioli bruciati hanno segnato questo giugno 2016.
1° cosa bella – porno
A chaqun son porn, ho sentito dire una volta, e la frase mi è rimasta tatuata in testa: ognuno ha il suo porno, la sua passione irrefrenabile, che non tutti condividono, che anzi molti troveranno disdicevole.
Una passione su cui spendiamo energie, tempo, soldi, sogni bagnati notturni e ad occhi aperti.
Può essere anche una passione incoerente con i nostri principi morali, un porno che ci fa predicare bene e razzolare male come un predatore da oratorio.
Il mio suggerimento? Non nascondiamola, parliamone apertamente: mostriamo la nostra debolezza e il nostro debole per primi: non solo saremo più leggeri, ma pure inattaccabili dai benpensanti, e li incoraggeremo a togliersi quel palo che li sotiene dal coccige alla cervicale e a godersi la vita.
Quando facevo il critico cinematografico intervistavo attori terrorrizzati dal far sapere cosa amavano o cosa odiavano davvero. I loro PR gufavano come avvoltoi entrando nella stanza con scuse patetiche tipo “Hai chiesto un bicchiere d’acqua?” “Avete ancora 42 minuti”.
Non George Clooney.
A Venezia, durante una conferenza stampa di non so più quale film (no, prima che vi si contorcano le mutande, non l’ho mai intervistato a tu per tu. Nemmeno Brad, ma l’ho visto dal vero con Angelina. Soprattutto nemmeno Keanu, e qui vorrei ricordare a una certa caporedattrice dell’Uomo Vogue che non nominerò, ROBERTA ROTTA, che l’aspetto al varco), dicevo, Clooney si sentì posta la seguente domanda: “Come può un attivista come lei fare la pubblicità a Nespresso, la multinazionale più cattiva del pianeta?”.
Gelo nell’auditorium.
Tutti girati verso l’impertinente, coraggiosa, rompicoglioni collega.
Clooney non gradisce il tono, ma risponde sicuro: “Ho una costosa abitudine, ed è volare su aerei privati. Non solo servono tanti soldi, ma inquina l’ambiente, quindi mi costa ancora di più perché per ogni volo poi devo riequilibrare la mia impronta ecologica”.
Sono passati tanti anni, quindi la mia citazione non sarà verbatim, ma il succo era: ah gnegné, non faccio una sola cosa cattiva, ne faccio due: e te fatti una ramata di c**** tua.
Così, dopo tutta questa premessa e questo esempio molto glamour, faccio coming out sul mio irragionevolmente costoso e disdicevole amore per l’alta ristorazione.
Non potrei mai spendere 700€ in una borsetta o in un paio di scarpe con la suola rossa (che forse ce ne viene pure una sola) o in una giornata a vedere la Formula Uno dal vivo, ma li ho appena spesi in una cena per due persone, e sono contenta di averlo fatto.
Anche se mi sento in colpa, perché LO SO che con quella cifra si scava e si costruisce un pozzo in un villaggio africano. E ha ragione chi mi fa notare che ho stracciato i maroni con i rifugiati, che mobbastaperò con i post strappalacrime sui campi di Idomeni e le rive di Lampedusa, e che sai con 700€ quante cose ci fa il dottor Alì, l’unico pediatra di Bab-al-Salam.
Ma è per questo piacere che metto da parte i soldi prima e stringo la cinghia dopo. È il mio #OOTD #musthave.
Qualcuno li spende in tre mesi a suon di cerette, unghie e messe in piega, e fa bene! Qualcuno li spende in prime edizioni, qualcuno per seguire la squadra in tasferta o la band del cuore in tour, in una stagione all’opera, in due olivi maturi per il suo giardino, in un televisore sottile come velo di cipolla – e fanno tutti bene.
Io ho il televisore col tubo catodico profondo 85cm, e di tutte queste cose non me frega un tubo (mm, no: gli olivi mi piacerebbero un sacco. Anche la stagione all’opera).
Mi frega invece di fare la fuitina di lunedì a Mentone, andare al Mirazur, dove René Redzepi, lo chef numero 5 al mondo della lista dei 50 Best San Pellegrino, è ospite del numero 6 Mauro Colagreco, e con una brigata di 25 ragazzi preparano una cena, una lista dei vini e una esperienza culinaria indimenticabili per clienti venuti apposta anche dagli Stati Uniti.
Mi frega di assaggiare piatti che potrei provare solo a Copenhagen, nel suo ristorante Noma, se riuscissi a prenotarci un tavolo (c’è giusto quell’annetto di lista di attesa) e a spendere tre volte tanto (tra viaggio, pernottamento e conto: perché 700€ a Mentone sono un prezzo di favore, grazie agli sponsor tra cui… Nespresso!).
E ora, dopo la premessa glamour e il coming out sulle difensive, sarebbe ora di parlare della cena.
Solo che i piaceri pornografici sono troppo intimi; posso dirvi di cosa godo, ma non come: ve lo lascio immaginare con questo video (è il secondo a caricarsi) e qualche foto.
Come se vi passassi una copia di Le Ore, Playboy o Lando…
2°- giochi al ristorante per bambini
Non so quale sia la media nazionale, ma penso di mangiare fuori piuttosto spesso.
Aiuta il fatto che mio suocero abbia un bell’albergo sul mare con un ottimo ristorante e uno chef con cui è molto divertente programmare la cena scegliendo tra il pescato del giorno, e dove in agosto andiamo tutte le sere.
Quindi, effettivamente, la metà dei nostri pasti fuori viene consumata al Ristorante della Baia a Le Grazie (se ci andate, dite subito che vi manda Cakemania e che volete il tiramisù con sale rosa: patti chiari, amicizia lunga!).
E lì, dove siamo a casa nostra, il figlio più piccolo ha il privilegio di stare a tavola solo per il tempo che gli serve per mangiare il suo fantasioso ed equilibrato menù abituale (penne al pomodoro, una coppetta di lamponi); il resto lo passa nella hall con l’iPad, davanti alla Tv, a disegnare o a fare un elmo così a chiunque sia di turno alla reception.
Ovviamente è una situazione particolare, non riproducibile in pizzeria o in uno dei 50 Best (dove comunque non porterei un bambino di 7 anni nemmeno dipinta).
Diciamoci la verità: la risorsa più facile per tenere seduti a tavola i bambini (e lagna-free) è un Nintendo, un cellulare farcito di app o un ingombrante iPad.
Non è elegante, ma lo facciamo tutti.
Per esempio, a Parigi, un paio di anni fa, ci siamo ritrovati a Le Chateubriand (allora nei primi 10 dei 50 Best, grazie alla cucina eccitantissima di Inaki Aizpitarte) accanto a Natalie Portman, seduta come noi a un micro-tavolo da bistrot insieme a suo marito e al loro bambino di circa due anni, che non avendo né sedia né seggiolone si arrampicava incessantemente sul collo della mamma, giustamente annoiato e indifferente alle ostriche in brodo di granatina del fichissimo chef basco. Finché la bella attrice (che sembra photoshoppata anche dal vero) non ha tirato fuori dalla borsa il suo tablet: il piccolo allora si è fermato sulle sue ginocchia e lei ha potuto finalmente cenare. Lanciando un supplice sguardo apologetico nella nostra direzione, a cui ho risposto con un complice sguardo genere “tranqui zia, chi è senza iPad scagli la prima pietra”.
(Era anche la seconda volta che mi trovavo in un ristorante francese con la Portman; a questo punto a me piace pensare che abbiamo un solo grado di separazione, a lei che sono una stalker.)
Quindi la tecnologia viene in aiuto a comuni mortali e VIP, però sappiamo tutti – comuni mortali e VIP – che potremmo fare qualcosa di meglio, o almeno di diverso.
Così volevo segnalarvi questo post, che suggerisce passatempi di vario tipo per bambini al ristorante: dal più banale colorare un libro, al più stimolante gioco dello scontrino, che trovo geniale e foriero di conversazioni che lanciano reti ad ampio raggio.
Daniela di La scuola in soffitta lo chiama “Ok, il prezzo è giusto!” ed è un gioco perfetto per fare indovinare ai nostri figli quanto costa un piatto di pasta al pomodoro mangiato fuori.
È il momento di spiegargli il concetto di filiera, ingrosso e dettaglio, food cost, brigata di cucina e tovagliato: causa e effetto, domanda e offerta insomma… un po’ come farebbe Richard Scarry in uno dei suoi bellissimi libri su Felicittà.
E per fargli capire perché vengono con noi solo quando si mangia la pasta al pomodoro e non quando si mangia l’ostrica in brodo di granatina.
3° la lista della spesa di Michelangelo
Ho ereditato dalla scrivania di mio nonno tre cose: il suo set di forbici e tagliacarte; la sua cucitrice; e una scorta di rotolini da calcolatrice.
Uso regolarmente tutte e tre le cose, ma i rotolini di carta ruvida e ingiallita li uso proprio tutti i giorni, da 10 anni, per scriverci sopra la lista della spesa.
Man mano che vedo cosa manca, lo annoto in colonna con una matita:
latte
uova
burro
bicarbonato
…
La maggior parte delle volte sono io a fare la spesa, ma nel weekend vanno anche i figli e il marito.
Non posso dire che tornino con un’idropulitrice quando avevo chiesto un barattolo di cannellini, però aggiungono sempre qualcosa che piace a loro: come minimo patatine e budini i figli, gnocchi e Coca-Cola il marito.
Non è grave, ovviamente – chi non vuole gli gnocchi? A parte i due figli su tre che li detestano, e il terzo a cui piacciono non vive più con noi da tre anni e quindi abbiamo lo stesso gnocchi per cinque persone?
Insomma, l’afflusso di junk food è abbastanza calmierato, per quanto preferirei davvero che certe bevande gassate e farine di patate intrise di oli idrogenati entrassero meno sovente in casa.
Ma che succederebbe se quel mio cartiglio assomigliasse a una lista della spesa di Michelangelo, come quella scovata a Firenze dallo stimato collega e amico Alessandro Marzo Magno?
A sinistra le parole per i bottegai, a destra i disegni per il servo analfabeta.
Con una lista così perentoria, sfido chiunque a tornare dal supermercato con tre porzioni di gnocchi in più.
4° cosa bella – quella cioccolata lì
Quello che non posso scrivere sul mio rotolino di carta ingiallita sono alcune delle cose che mi piacciono di più al mondo: i Doritos (patatine di mais instrise di oli idrogenati), il frosting al cioccolato di Betty Crocker, i Kisses della Hershey (cioccolatini a forma di goccia) e la loro cioccolata con le bolle, la cheesecake surgelata di Sarah Lee.
Guilty pleasures – o piaceri colpevoli – di cui godo quando vado negli USA a trovare i parenti (cosa molto rara), quando i parenti vengono a trovarmi in Italia, o quando i parenti si muovono a compassione e mi mandano uno scatolone di junk food – perché siamo tutti terroni, e quando la nonna ci manda la passata di pomoro fatta con le sue mani, o la Campbell’s Soup al pomodoro comprata al supermercato, il cuore si scalda e la salivazione si attiva.
Vi ricordate la scena in cui Anton Ego, il critico gastronomico con una torre Eiffel infilata da coccige a cervicale, assaggia la ratatouille del topo-chef nel film di Disney?
Ecco, così mi sento io davanti a certo cibo americano: è la mia infanzia che ritorna in un lampo.
Il nonno John che ogni sera mi comprava una barretta di cioccolata con le bolle e me la dava prima della nostra passeggiata lungo l’Arno mentre scendevamo le maestose scale del consolato americano di Firenze, dove abitavo anche io quando avevo due anni (no, non come ricercata internazionale tipo Assange – il nonno era console lì in quel periodo).
Mi basta vedere l’incarto di quella cioccolata che subito sento la mia mano nella sua, la sua mole alla mia sinistra, le sue incessanti raccomandazioni: era sempre preocupato per la sicurezza del mondo, e ancora di più per la sua famiglia; per la prima nipotina andava proprio in palla.
Non mi sono mai più sentita così protetta come quando ero con lui.
Negli anni seguenti è stato stanziato in altre città – Londra, Napoli, Roma – prima di tornare in patria dopo 40 anni di servizio, e ogni volta che ci vedevamo arrivava con quelle cose che nei negozi italiani degli anni ’70 non c’erano ancora: la Seven Up! ben prima che inventassero la Sprite; i chocolate chip cookies; i marshmallows; il mais in scatola.
Le comprava allo spaccio del campo militare più vicino; a volte mi veniva a prendere apposta e lo accompagnavo: era un mondo coloratissimo, mi sembravano chilometri di scaffali di tesori sconosciuti. A 8 anni, poche cose potevano essere più eccitanti!
Oggi scrivo questo sapendo che tra una settimana sarò a Boston, dove non vado da 13 anni.
So anche che farò colazione con waffle e pancake tutte le mattine, e merenda con cheesecake alte due palmi ogni pomeriggio. Che ci sarà un barbecue con gli amici che non vedo da 25 anni, e un “clam bake” in famiglia (ve lo descriverò il prossimo mese).
Eppure, avendo appena scoperto dell’esistenza di Cibo USA, uno shop online di Caltanisetta che manda in 48 ore tutte queste cose meravigliose di cui sento sempre la mancanza… non ho resistito. Ho fatto subito un ordine e mi sono pure permessa di consigliare a Francesco, il suo giovane ed intraprendente proprietario, di aggiungere un paio di prodotti al catalogo da ritrovare al mio ritorno.
Tanto lo so che ad agosto avrò già finito le scorte portate dal viaggio…
Una cosa che anche no (ma un po’ sì, dai) – lo zen e l’arte di bollire i fagioli
A cicli, la vita ci sottopone avversità da superare per rafforzare la nostra resilienza – dicono quelli del carma, i santini, i tabezai ispirazionali con gli angeli che piangono sugli scogli e i bambini che abbracciano cani e margheritine.
Insomma, detto papale papale, siamo tutti d’accordo che quel che non ammazza ingrassa.
A parte i miei fagioli.
Perchè una volta su tre, in questa casa non arriviamo a mangiarli: me li dimentico sul fuoco e bruciano. Con tutta la pentola. La SOLITA pentola.
Questo succede da 16 anni, dal giorno che ho messo a bollire dei borlotti debitamente ammollati, e sono uscita per portare il grande in piscina, il medio nel passeggino, il piccolo ancora un’idea platonica nella mia distratta testa.
Bella fresca me ne sono tornata un’ora e mezza dopo trovando l’androne del palazzo avvolto nel fumo grigio, i condomini incazzati neri che avevano già chiamato i pompieri, e il mio appartamento che puzzava in una maniera che è sembrata irrimediabile per una settimana.
Non ci crederete, ma la pentola era quella che vedete in foto, ed è davvero la stessa che in questi giorni ha sopportato il mio ennesimo tentativo di darle fuoco (ah, le Lagostina di una volta! Non le fanno più/hanno buttato lo stampo/si stava meglio quando etc).
Da quel giorno mi è successo con gli spagnoli, i Corona, gli auzuki, i mungo, quelli bianchi con l’occhio, i rossi e i neri messicani… citate un fagiolo, e io ve lo ardo.
Da quel giorno però vivo nella serena contemplazione della mia fallibilità: una serenità zen, lo zen dell’arte di bollire i fagioli sapendo che forse ordineremo una pizza.
Non so perchè mi capiti solo con questo legume: mai con le lenticchie, l’arrosto, il ragù, i biscotti.
Però è così, succede, è come se trascendesse il mio controllo: anche se è evidente che basterebbe alzare il culo dalla sedia e gli occhi da Facebook e annusare l’aria, fare quei 15 passi che separano il mio studio dai mie fornelli e CONTROLLARE se c’è ancora acqua, se il sale è giusto, se sono al dente o sfatti.
E grazie a questa serena consapevolezza, 16 anni fa e già madre di due figli, davanti ai pompieri e alla signora del piano di sopra in vestaglietta, sono diventata adulta. Sono cadute le pretese infantili di invincibilità intellettuale (“Se mi ci metto, posso fare qualsiasi cosa! Se davvero voglio, posso capire anche le divisioni a due cifre!!”) e ho imparato che non sono efficiente come vorrei, che ho dei grossi limiti e che va bene così: è molto riposante non dover pretendere di fare 46:12 o portare a tavola pasta e fagioli solo perché mi va un sano piatto contadino (chi mi credevo di essere??).
Ecco perché metto sempre un barattolo di cannellini in lista. E chi va a fare la spesa sa che non è sostituibile con un’idropulitrice.