Indice
- 1° cosa – primo gennaio
- 2° cosa – vivo che parla, morto che ascolta
- 3° cosa – dirselo, sempre
- 4° cosa – telefono amico
- 5° cosa – il portagioie della nonna Liliana
1° cosa – primo gennaio
– Sasha ma che fai?
– Metto una tua foto. Ho bisogno di vederti.
– Daaaaaai.
– Abbiamo tutti bisogno di vederti. C’è una chat solo per le tue foto. Anzi, io sono in una chat con le tue foto, e ho capito che quanto meno ce n’è un’altra.
– Manzomma.
– Eh, così t’inzigni, come dicono in Sicilia.
– Daaai, smettetela.
– Ma smetti tu e torna indietro! Ma che, si fa così?
– Oramai sono di qua.
– E digli che hanno sbagliato! Lo sai anche tu, che hanno sbagliato, e che devi tornare! Non puoi mica stare di là, devi stare di qua.
– Sì sì glielo dico, voi intanto togliete le foto.
– Guarda com’eri bello.
– Saaaaashaaaa
– Non te la prendere con me, io ne ho anche poche. Pensa quante ne ha Lorenzo. Ti aveva pure fatto un servizio, in barca, con quel golf di shetland marrone… l’ho visto ora nella chat.
– E dai.
– Guidino, non possiamo stare di qua senza di te.
– Ma io non posso tornare. Vi aspetto! Vi aspetto tutti!
– AHAHAHA
– Oh, basta piangere.
– Guarda, solo perché so che appena arrivo di là ti ci trovo. Stai subito all’entrata, vero?
– Ti aspetto all’entrata, tranquilla.
2° cosa – vivo che parla, morto che ascolta
“Ma lui lo sa”, mi ha risposto Silvia quando le ho scritto che non potevo andare al funerale di Guido perché avevo il Covid, e la cosa mi era molto pesante.
“Sì, lo sa”, mi sono detta con sicurezza.
Non può non saperlo, non può non vederlo, quanto dolore sto provando. Lo emano come un campo magnetico di rabbia e disperazione che travolge tutto e lascia macerie alle sue spalle.
Sbuccio una carota e vedo il sorriso del mio amico; piego i calzini e sento la sua voce; guardo un film e mi pare di essere seduta in macchina con lui e gli altri, di notte, in viaggio verso una festa.
Penso a quante persone stanno pensando adesso a un momento che hanno condiviso con lui: un abbraccio, una battuta, una confidenza, una birra in spiaggia.
Tutte stanno dicendogli qualcosa, tutte sentono che stanno comunicando con lui con un filo diretto, tutto speciale, solo loro.
Ma Guido davvero riesce a sentirci tutti, tutti insieme? E a restituirci quel sorriso dolcissimo che sapevamo sempre di trovare quando incrociavamo il suo sguardo?
Come fa a dare retta e me mentre sbuccio le carote e contemporaneamente a sua figlia mentre fai i compiti? Darà bene la precedenza a sua moglie, in ogni momento del giorno e della notte. Poi a sua sorella, a suo fratello, ai suoi genitori, piuttosto che a un’amica a cui voleva bene, ma che non vedeva da anni.
Deve essere uno sbattone assurdo, essere morti, e dover vegliare su parenti e amici.
Mia nonna Ebe diceva sempre che mi raccomandava “alla nonna Marianna, che aveva avuto 17 figli e andava a letto nuda per non far andare il marito al casino, e a quei tempi non lo faceva nessuna”.
Lasciando da parte l’argomento che ho capito che mia nonna mi voleva angelo del focolare, ma #anchemeno, eh. Ma povera mia trisnonna Marianna, non si era fatta abbastanza culo nella sua vita, che 100 anni dopo aver figliato come un ciclostile ancora doveva stare a guardare me??
I’ll sleep when I’m dead, dormirò quando morirò, si dice in inglese.
Ma sembra che non ci sia pace tra i cipressi, per i nostri cari estinti.
Perché noi che stiamo di qua continuiamo a parlargli, a chiamarli, a sognarli.
La settimana scorsa ho sognato che entravo in una trattoria e ci trovavo Guido.
Era giovane, aveva ancora tutti i capelli e, colto di sorpresa, mi rivelava che era sparito perché aveva fatto un guaio.
Gli facevo un culo tanto, ero fuori di me per la rabbia, e lui mi abbracciava con la testa china, come un bambino che cerca il perdono, e piangeva così tanto che mi ritrovavo con la camicia di jeans tutta bagnata (eravamo ragazzi negli anni ’80, da cui la camicia di jeans).
“L’hai chiamato”, mi ha detto Silvia quando le ho raccontato il sogno.
Non lo so se l’ho chiamato. Se l’ho fatto, non volevo.
Mi spiace rompergli le scatole, perché Guido era una persona molto buona, molto sensibile, e amava la sua privacy. Non stava su alcun social, e sarà contento che in tre mesi su Facebook, a parte una foto (bellissima, in cui si lava i denti), non è uscito niente di lui. Metà per rispetto al suo carattere, metà perché siamo talmente scioccati che non riusciamo… ad accettarlo. Siamo tutti bloccati al livello 1 delle fasi del lutto: il rifiuto.
E comunque non lo chiamo perché io ai fantasmi non ci credo.
Però, Guidino, la sera del tuo compleanno tutti quelli senza Covid si sono ritrovati per festeggiarti, e poi sono andati di notte a casa di Lorenzo a fargli il tampone intabarrati come monatti, con le torce e gli spray, e c’è Nicolino che glielo spruzza in faccia e Lorenzo grida “Mariannacane, negli occhi l’amuchina no!”, e Massimo mi ha mandato il video integrale, sono 6 minuti di risate fino alle lacrime, e io ti ho sentito che dici “è il disinfettante!” al 44esimo secondo.
L’ho riascoltato tante volte, sei tu, non potevi mancare. Forse volevi solo vegliarli, ma ti è scappato di partecipare; l’ho sentito che hai detto “è il disinfettante!” ridendo.
Io ai fantasmi non ci credo, ma a te sì.
3° cosa – dirselo, sempre
“Pronto?”
“Oh Sasha, sono Lorenzo. Volevo solo sentire la tua voce. Ieri sera ero con Nicola, con una birretta, da soli… sai com’è… e volevo dirti che ti voglio bene e che mi manchi. Quando vieni qui ti faccio un tè, sono bravissimo a bollire l’acqua. Ciao!”
Lorenzo che mi chiama solo per sentire la mia voce e dirmi che gli manco e mi vuole bene.
Non ho fatto in tempo nemmeno a chiedergli se poi il Covid lo ha preso o no, perché quel tampone negativo fatto in 6 minuti non era certo attendibile. Ma a dirgli che gli voglio bene anche io, sì.
4° cosa – telefono amico
E così ho ripreso, con un po’ di imbarazzo ma con la sicurezza di fare la cosa giusta, a telefonare senza preavviso agli amici, vicini e lontani.
Come si usava ai tempi in cui portavamo le camicie di jeans e c’erano i telefoni grigi con il disco in cui infilare le dita per comporre il numero.
È speciale non avere niente di particolare da dirsi, ora che ci si chiama solo per motivi troppo complessi per essere gestiti chattando o lasciando messaggi vocali (che iniziano sempre con “ti lascio un vocale così faccio prima”).
Non ho iniziato io, fra l’altro.
È stata Monica, un paio di anni fa.
“Tutto bene?” ho chiesto allarmata, sedendomi sull’uscio con la spesa ai miei piedi, senza nemmeno infilare la chiave nella porta. Siamo amiche da quando avevamo 6 anni, ma abbiamo abitato praticamente tutta la vita in posti diversi. Doveva essere successo qualcosa.
“No, nulla, ti ho chiamato solo per sentirci”.
Senza movente c’è solo purezza.
5° cosa – il portagioie della nonna Liliana
È arrivata la mia eredità.
C’erano, anzi ci sono, molte cose che appartenevano a mia nonna, tutte bellissime, che potrei avere in casa mia. E che mi sono state offerte con una certa insistenza.
Ma ho fatto una scelta sentimentale di cui sono molto sicura: preferisco avere uno, al massimo due oggetti per me molto rappresentativi, rispetto a più pezzi di valore economico, pratico o estetico.
Il tipo di oggetto che prendi al volo quando la casa ti va a fuoco o scoppia la guerra devi fuggire oltre il confine, per mantenere viva la storia della tua famiglia.
La nonna Liliana in questo antico mobiletto persiano teneva gioielli, bigiotteria, perline, aghi: aghi ce n’erano sempre da tutte le parti perché lei cuciva sempre qualcosa.
Tra una collana di perle da zarina e una spilla di rubini teatralmente finti, oltre agli aghi c’erano anche minuscoli oggetti che potevano servire per la casa delle bambole – perchè lei stava sempre arredando una casa delle bambole per una nipote: bottoni di madreperla che potevano sembrare vassoi di peltro, scovolini per pipa che, debitamente piegati, potevano fare da anima ai bracci di una lampada.
Forse proprio quegli scovolini gli hanno dato nel tempo l’odore che ancora adesso sento quando apro uno quei cassetti. Venivano dall’apparato tabagista di mio zio Danny: immaginatelo, alto e scolpito, viso bellissimo, favoriti e capelli biondo fragola, un 25enne che gira per Londra in velluto a coste color caramello, la pipa in bocca. Tutta la poesia degli anni ’70.
E allora ho scoperto che il ruolo che non pensavo di dare a questo mobiletto, è proprio quello di lasciarsi annusare.
Ogni sera mi concedo di inspirare quell’aria, quell’odore che mi trasporta automaticamente nella casa dei miei nonni a Greenwhich, i momenti più felici della mia infanzia.
Sento le carni morbide e cedevoli della nonna che mi avvolge, la sua voce che dice “Sashetta mia”; il profumo del whisky torbato che il nonno prendeva prima di cena in poltrona, leggendo il giornale, una ciotola di salatini al suo fianco da cui potevo impunemente rubare tutti i quelli a forma di pesciolino.
Ho scoperto quante conversazioni si possono avere con chi mi aspetta di là, aprendo un cassetto e inspirando forte.