Indice
Ogni mese vi racconto le cose che mi hanno colpito: nel bene soprattutto, ma anche nel male. Un piatto dipinto da un’amica, la hygge, il nuovo “figlio”, la vera cucina cinese e una riflessione sul mangiar carne hanno segnato questo dicembre 2016.
1° cosa bella – un bellissimo piatto
Amicizie che nascono tra foto di torte che diventano commenti che diventano chat che diventano confidenze che diventano incontri: quattro anni fa Silvia Immer postò sulla bacheca Facebook di Cakemania una torta dipinta amano, a tema “Paura e delirio a Las Vegas”, e come la vidi pensai: “Chi è questa pazza e come le è venuta in mente una torta così? Mi sta troppo simpatica!”.
Diversi dolci e tutorial dopo, sono andata a trovarla nell’affascinante Laboratorio Paravicini di Milano, dove Silvia lavora come decoratrice di ceramiche.
Nelle vecchie scuderie di un antico palazzo a pochi passi dal Duomo, una squadra di donne dall’occhio e dal pennello fino dipingono servizi di piatti su ordinazione e su disegno delle proprietarie Benedetta Medici e Costanza Paravicini.
Tutto è bello, lì dentro: le lampadine, le sedie, i tavoli, l’intonaco, il pavimento. I vestiti delle signore!
La prima volta che ci sono stata non riuscivo quasi a deglutire guardando il catalogo di tutti quei meravigliosi piatti appesi alle pareti: ero presa da una vera sindrome di Stendhal.
Ma, incredibilmente, il Laboratorio non produce alzate per dolci.
Esatto.
Uno spreco di potenziale da urlo.
Avevo però subito registrato la presenza di un decoro neoclassico elegantissimo, perfetto per ospitare una torta la suo centro, e insistito perché Silvia convincesse le sue cape a mettere in produzione delle alzate con quel motivo di colonne e alloro.
Lei ha solo detto: “Vediamo”.
Due mesi dopo mi sono ritrovata in quelle vecchie scuderie, con Silvia che mi porgeva proprio quel piatto, dipinto con le sue manine sante!
Il disegno originale è appannaggio privato di una famiglia, questo è ancora più speciale perché personalizzato per me:
Un regalo bellissimo, prezioso e commovente, che io ho scambiato con una tazza di Cakemania fatta stampare su internet.
Lo squilibrio dal mio punto di vista è oltremodo imbarazzante, ma Silvia era estaticamente felice quanto me quando l’ha ricevuta, e l’ha abbracciata come se fosse un gattino.
La mia prima impressione era giusta: è proprio una pazza!
2° cosa bella – un Natale hyggoso
Non lo sapevate, ma sotto Natale avete sempre hyggato.
Cosa significa hygge l’ho spiegato meglio in questo post, ma per fare un bignamino pronto all’uso è quella sensazione di serenità, soddisfazione e autocompiacimento che sfiora la felicità e che ci regaliamo quando ci rifugiamo in un ambiente protettivo, che scalda in cuore: può essere da soli davanti a un caminetto con una tazza di cioccolata calda, un brunch in pigiama, un bbq con gli amici, un vin brulé al rifugio dopo la sciata, la coperta fatta dalla nonna e la serie più stupida in tv.
Anche se in Danimarca la parola è in uso da 200 anni, per il resto del mondo hygge è il neologismo del 2016. Sì, molto più di petaloso.
E quindi, lo avrete capito, non c’è periodo dell’anno più hyggoso (ciao, Accademia della Crusca!) del Natale.
Per me significa una casa piena di dolci e le “ragazze” che passano a trovarmi per il nostro té & pasticcini di rito (che quest’anno ho trasformato in un Bloody Mary & cipolle borettane, da cui siamo uscite tutte più allegre, con la genovese Simona che parlava in napoletano)
… il piccolo che ogni giorno mi fa un regalino dell’Avvento con il Lego, ma quando è stanco mi dà un sasso
… le decorazioni che raccontano la storia di tre generazioni: da quelle di vetro che erano dei miei nonni a quelle che ho dipinto quando ero giovinetta per la mamma e che mi sono portata via quando mi sono sposata (è lo spirito del Natale, mommy), alle ultime scelte con il piccolo in un negozio di Boston lo scorso luglio
… hygge è anche la famiglia che si allarga, e che a qualche decorazione deve dire… #ciaone
3° cosa bella – the cat is on the table
Quando lavoro dorme sulla mia scrivania nel suo cestino, così stiamo vicini vicini.
Quando cucino balza sul banco e supervisiona quello che preparo; così stiamo vicini vicini.
Quando faccio la doccia spinge la porta del bagno, entra e si siede sul tappetino a guardarmi; così stiamo vicini vicini. E appena ne esco, entra lui e va a leccare il saliscendi, perché quell’ultima goccina che cola è una prelibatezza.
Quando passo a lavarmi i denti, dalla doccia salta subito sul lavandino e si infila tra il mio spazzolino e il rubinetto, perché l’acqua del vicino è sempre più bagnata. E poi così stiamo vicini vicini.
Quando vado a letto mi fa gli agguati ai piedi sotto la coperta, che hai visto mai che mi arrendo e stanotte non dormo e stiamo vicini vicini.
Lo abbiamo portato a casa otto mesi fa dopo un processo di screening da parte delle gattare liguri e basso-piemontesi degno delle adozioni internazionali, tanto che siamo andati a prenderlo in un’altra provincia.
(Se cercate un gatto, non lasciatevi sfuggire che avete un terrazzo: sarebbe come dire “mi buco due volte al giorno e voglio adottare un bambino che vada a prendermi la dose dal pusher, sennò la pula mi ferma”)
Nessuno di noi pensava che avrebbe potuto volere tanto bene a un gatto: anche se mi ha ridotto la faccia come Capitan Harlock, anche se si lancia a fauci spalancate sul piccolo come se fosse una gazzella nella savana, anche se non posso più lasciare il mio bicchiere d’acqua sul tavolo e suppore di tornare a berlo, perché quello è veramente molto più bagnatissimo della ciotolina che sta in terra vicino ai croccantini.
È davvero come se la famiglia si fosse allargata a un nuovo figlio.
Ho voglia di dirgli vieni dalla mamma (non ci sono ancora arrivata) e vai dal papà (a questo invece sì, per irritare mio marito, mwahahha), e quando sono fuori e sto per rientrare sapere che sentirò le sue zampette correre giù per le scale per accogliermi il mio cuore fa un piccolo tuffo di gioia.
Osserviamo tutti con tenerezza la sua crescita e con spavento i suoi progressi: non è divertente vederlo tentare di camminare sui fili del bucato a tre piani di altezza; lo è invece quando cerca la nocciola speciale che gli piace di più tra le 100 che ci sono nel vaso della frutta secca, e giocarci a hockey per tutta la casa.
Mi sento svenire all’idea che possa saltare giù da una finestra e perdersi o essere investito da una macchina; proprio come se fosse sangue del mio sangue.
E così, anche quando sale sul tavolo, invece di dargli un calcio, lo metto in terra e gli dico solo uno di quei no che aiutano a crescere.
4° cosa bella – la vera cucina cinese
I cinesi mangiano i gatti, sentivo dire quando ero bambina.
Ma allora non ero gattara, e come oggi non mi importava che tipo di carne mi arrivava nel piatto: bastava che fosse di mio gusto.
Trovai il primo cibo cinese della mia vita così diverso e così buono che ancora ricordo distintamente il sapore e la croccantezza di quegli spaghetti di soia fritti presi in un take away a Londra nel 1975.
A sei anni ero già innamorata del cibo cinese, ma a Viareggio, dove vivevo allora, non ce n’era. Da ragazzina allora prendevo il treno e andavo da sola a Firenze per andare a farmi venire la sindrome di Stendhal a Palazzo Davanzati e per pranzare in un buio e bisunto ristorante per turisti sotto il museo, dove mangiavo in silenzio, e fino a star male, involtini primavera, pollo alle mandorle, riso alla cantonese e gelato fritto.
In Cina non sono mai stata, ma mio marito più volte, e mi racconta sempre di piatti completamente diversi da quelli che troviamo in Europa.
E io da sempre desidero ardentemente provare la sua cucina autentica.
E così, fedele alle buone abitudini di una volta, ho preso il treno e sono andata a Milano per provare il ristorante Bon Wei, votato alla cucina regionale e considerato da molti il migliore in Italia.
Il locale è elegantemente contemporaneo e urbano, con un design cinesizzante solo nelle superfici laccate di rosso profondo e nei paraventi quadrettati. Non ci sono pagode con nappine di seta fuchsia e gatti portafortuna che fanno ciao, per intenderci. Le ragazze in servizio indossano qipao di velluto blu notte con pochi ricami: bellezza e leggiadria.
Ho chiesto un menu composto da piatti classici di regioni diverse e una birra per accompagnare il pasto: Le Zhang, uno dei soci proprietari, mi ha consigliato la Curmi 32, una bianca artigianale del trevigiano che effettivamente si è sposata bene con ogni portata.
Che sono state:
– Zuppa di wanton (Canton): brodo di gallina leggero; gamberetti essiccati; julienne di alghe, cipollotti, iceberg e frittatina; ravioli di pasta di riso ripieni di gamberi. Delicata, ogni sapore a comporre un quadro completo. Il piatto che mi è piaciuto di più.
– Anatra laccata (Pechino): carne morbida e pelle croccante già fatte a pezzi, da avvolgere insieme a una julienne di cetrioli e porri crudi dentro a un sottile pancake spalmato di salsa di frutti di mare e anice. Un classico che si trova solo nei buoni ristoranti cinesi.
– Teste di leone (JianSu): polpette di maiale, tofu, zenzero saltate in salsa di soia allo zenzero e sesamo. Morbide, non particolarmente diverse dalle pietanze che si provano in ristoranti più usuali.
– Tuo jiao wu (Sichuan): branzino cotto al vapore, cosparso di un trito di verdure e peperoncino su cui viene versato olio di girasole bollente per fare uscire meglio il piccante. Piccante!
– I dolci: il primo è lo yez jio, una pallina di glutine di riso cotta la vapore, profumata alla vaniglia e coperta di farina di cocco, che nasconde un tuorlo sodo al suo centro; un pasticcino gommoso e infantile che mi è piaciuto molto. Il secondo è lo tza tau yugu (forse, il nome non era facile!), un’altra pallina di glutine di riso, questa volta con una crosta cosparsa di sesamo bianco e un cuore di sesamo nero e scorza di arance, veramente squisita e aromatica.
Ho ovviamente interrogato Le Zhang in stile Guantanamo sui come i cinesi consumano i dolci. Perché, se ci pensate, non sono certo famosi per la pasticceria.
E così ho scoperto che i dolci, di partenza meno zuccherini rispetto a quelli occidentali, in Cina vengono consumati solo nel pomeriggio con il tè: non a colazione, quando si mangiano spaghetti e zuppe; e mai a fine pasto, da concludere piuttosto con una grappa.
Il cioccolato ha un mercato solo nella versione fondente o (curiosamente, considerata la sua spiccata dolcezza) bianco, e non comunque come tavoletta ma come guarnizione per le torte di compleanno, peraltro di recente adozione come moda occidentale: semplici sponge cake farcite con crema e panna.
Insomma, i cinesi non saranno cakemaniaci, ma quel poco che fanno secondo le loro tradizioni lo fanno bene: sappiamo ad esempio che il gelato era già in voga durante la dinastia Tang (tra il 600 e il 900), quando re Shang si faceva preparare un piatto congelato a base di latte di bufala, farina e canfora. È proprio dalla Cina che Marco Polo ha riportato in patria l’idea di questo straordinario dessert al cucchiaio.
Che, lasciatemelo dire, fritto in una pastella dorata e bollente, per la sottoscritta continua ad avere il suo perché anche in un locale buio e bisunto.
Una cosa che anche no – ma la carne sì
Gatto, cane, coniglio, mucca, maiale, cavallo, gallina, rana, tordo, acciuga, polpo: non faccio figli e figliastri solo perché un animale da compagnia per una cultura è il pranzo della domenica ideale per un’altra.
L’arbitrarietà con cui gli ebrei non mangiano crostacei, gli indù i bovini, i mussulmani i suini, gli americani il coniglio (ma lo scoiattolo sì) non mi convince affatto.
Sono stata vegetariana per un anno, molto tempo fa, e dal momento in cui ho deciso di tornare onnivora lo sono stata nel vero senso della parola: mangio tutto e voglio assaggiare tutto, e potervi raccontare quanto mi è piaciuto il coccodrillo, che la zebra ha la carne più saporita che abbia mai provato, che lo struzzo è buono ma il pavone meh, e che sul canguro e la renna ho opinioni ancora parziali perché li ho provati solo in versione essiccata.
Se mi fermo solo davanti ai topi (ma un pipistrello potrei) e a tutto il reame degli insetti e degli aracnidi, è per un’ubbia personale che non so giustificare se non con il ribrezzo automatico che mi suscitano questi animali. E viva l’incoerenza, sono golosissima di lumache, serpenti e anguille (che da vivi mi fanno arricciare la pelle), ma i vermi no, non ce la farò mai.
Qualche sera fa ero a cena al Cibreo, a Firenze, e lo chef Fabio Picchi passando in sala ha notato che stavo spolpando una coda di vitello bollita e, senza neanche dire “Buonasera”, si è gonfiato tutto di soddisfazione, mi è venuto accanto e ha dichiarato: “Ah, una donna che mangia la coda: 100 punti, subito!”.
Il mio macellaio mi ha presa in simpatia quando l’ho sgridato perché non mi stava mettendo il collo e le zampe insieme al resto del gallo: “Vecchia scuola, brava signora, queste son le clienti che mi piacciono!”.
Da ex-vegetariana e da abbracciatrice di alberi, dico che l’animale deve essere mangiato tutto, dalla punta delle orecchie agli zoccoli. In segno di rispetto: perché ha dato la sua vita per finire nel mio piatto.
E che piatto!