Indice
- 1° cosa bella – le liste di prescrizione
- 2° cosa bella – il bello è partecipare
- 3° cosa bella – il burro, però
- 4° cosa bella – l’erba del vicino è sempre più verde
- Poi però basta – la nonna Liliana
1° cosa bella – le liste di prescrizione
C’è un nuovo regime in casa nostra, e siccome funziona bene, lo voglio condividere con voi: magari potete testarlo nelle vostre famiglie e vedere se attecchisce.
Trovandoci in quattro dentro le stesse mura per 24 ore al giorno, sette giorni su sette, ho pensato che ci sono tutti i motivi per cui ognuno faccia la sua parte nella gestione domestica.
Ma invece di essere io a dire “tu fai questo, tu fai l’altro”, pur avendo una visione manageriale dall’alto (so che ai miei figli non viene in mente di piegarsi le mutande finché non ne trovano più neanche un paio nel cassetto), ho deciso di fare una lista che prescrive i mestieri ordinari e straordinari, da cui tutti possono scegliere quello che vogliono fare.
Ha questa faccia qui:
Ad esempio, con la quarantena Mario, 11 anni, ha imparato a farsi il letto e aprire le finestre ancora prima di uscire dalla su camera, ad appaiarsi le calze ritirate dallo stendino, a caricare una lavastoviglie (in cambio ha avuto un abbonamento a Disney +).
(Eh sì, a 11 anni. Non sono un modello di mamma Montessori, lo so. Però so anche di bambini della sua età che ancora non sanno allacciarsi e scarpe.)
Un’altra lista nata dalla quarantena, e dal bisogno di ottimizzare le scorte, è quella dei pasti programmati. Una cosa che pensavo che non avrei mai mai mai fatto nella mia vita, perché poter inventarmi una cena alle 7 di sera, dopo una giornata di lavoro, è sempre stata la cosa che mi ha mantenuta sana di mente.
Ma un menu (quasi) settimanale, ho scoperto, ha tre vantaggi:
- uno, mi ha spinto a fare l’inventario dei cibi a lunga scadenza, dei surgelati e delle spezie e a capire cosa ho davvero in casa (ho trovato della tapioca scaduta nel 2012!);
- due, la lista attaccata sul frigo garantisce l’organizzazione nutrizionale senza andare a scapito della creatività;
- tre, non ti chiedono tutti “che si mangia” – se lo vanno a leggere da soli.
Che, tutto sommato, è un’attività Montessori… anche se hai 55 anni. O no?
2° cosa bella – il bello è partecipare
La quarantena è andata bene, finora.
Noi grandi abbiamo preso tre chili secchi e figli zero (anche se sarebbe stato perfetto il contrario), abbiamo scoperto cose che non sapevamo gli uni degli altri (tipo, quanto urliamo quando facciamo le conf-call) e instaurato dei nuovi riti.
A malincuore devo dire che ho fatto in modo che il primo rito si estinguesse. Consisteva nella cena preparata da nostro figlio Pietro, che dopo una giornata di lavoro a tempo pieno era davvero benvenuta: pronta, abbondante e ottima (il menu settimanale è nato dopo).
Il segreto del suo successo? Pietro cucina tutto con tanto burro.
Ora, per lui che è alto 1 e 90 e pesa 5 non è un problema. Per noi genitori abbastanza.
Non voglio insinuare che avesse messo in atto un piano per compiere il delitto perfetto… tre mesi di lockdown fanno 90 cene con 100gr di burro a cena, uguale 9 chili di burro diviso 3, uguale 3 chili di burro a testa (non conto il piccolo Mario perché lui mangia talmente poco che non è statisticamente rilevante)… però l’ho insinuato. Qualsiasi giuria lo troverebbe innocente – anzi: un figlio premuroso!
Il secondo rito, che invece si è consolidato, è quello dei giocate serali.
Alterniamo biliardino, Monopoly, Scarabeo, Il Paroliere, Cluedo e Carcassonne, e con i loro tabelloni abbiamo messo le carte in tavola – letteralmente e metaforicamente.
Accennavo prima alle cose che stiamo scoprendo gli uni degli altri.
Io non avevo idea che mio marito potesse essere un gelido palazzinaro senza scrupoli finché non l’ho visto ipotecare Via del Corso per compiere un’obliqua operazione finanziaria ai danni del nostro figlio più piccolo.
E che questo fissa le sue strategie acquisitive su pochi elementi prescelti (le stazioni e le utenze a Monopoly; le strade con i ladri a Carcassonne) e poi si siede sul fiume a guardare i cadaveri dei suoi parenti che passano.
Che Pietro è competitivo quanto suo padre, con la differenza che l’ingegnere è mefistofelicamente calcolatore, silenzioso e letale, e lui, comico di professione, fa la cronaca di ogni suo ragionamento e mossa come un commentatore sportivo.
Io? Sono più fatalista; come stratega medievale punto tutto sui terreni occupati dai contadini e dalle abbazie (che storicamente hanno sempre avuto degli splendidi horti conclusi). E come immobiliarista ho un’inclinazione naturale per Viale dei Giardini e Parco della Vittoria, solo per i nomi.
3° cosa bella – il burro, però
Parricidi a parte, bisogna ammettere che il burro è buono. Pornografico, perfino: non voglio scomodare Ultimo tango a Parigi, ma l’ultimo vero burraio a Saint-Malo, sì.
Guardate questo video e ditemi se non sentite il bisogno di passare cinque minuti da soli nella doccia:
4° cosa bella – l’erba del vicino è sempre più verde
Aprile è il mese più crudele, diceva quel cuor contento di T.S. Eliot, che ce l’aveva con l’insensato ottimismo della vita che in primavera si rinnova pur sapendo che poi dovrà morire.
Aprile è il mese più bello, dico io, che non avrò come lui un Nobel per la letteratura, ma diritto alla mia opinione sulle stagioni sì.
Aprile, grazie alla Shu, me lo sono potuto godere anche in quarantena, perché con lei posso uscire e girare ogni mattina tra le stradine pedonali intorno a casa, che sfilano tra giardini segreti, horti conclusi (sì, qui ci sono diverse abbazie/monasteri/o giù di lì), chiostri, piccoli frutteti privati.
So che alle 8 le suore cantano nel convento davanti alla chiesa dove si sposarono i miei genitori, e cerco di essere lì in tempo per ascoltarle. Poi passo nella via accanto, lungo le ville che si intravedono dagli alti cancelli in ferro battuto, nascoste da giungle di aspidistre e palme di San Pietro. Villa Tita, Villino Patrizia, Villa Carla – immagino queste signore come delle mogli degli anni ’50, con i bracciali di monete d’oro al polso, a dare istruzioni veloci alle cameriere in cucina sui canapé da servire alle amiche venute per il bridge del giovedì.
Man mano che cammino, si aprono le persiane delle case, si sente il profumo del caffè che esce dalle finestre, qualche buongiorno tra vicini.
Ho fatto una mappa olfattiva che si muove con le fioriture, come un flower crawl: i glicini, i pitosfori, i sambuchi, gli aranci e i limoni, le rose. Una staffetta di fioriture attraverso le settimane: lì dove c’erano i gelsomini, fra un po’ ci saranno i rincospermi.
So dove i merli cantano, dove le peonie nevicano petali per terra, dove i capelvenere spuntano a ciuffi dai muri.
Conosco un pesante cancello che sembra chiuso e privato, ma che si può aprire e che mette in comunicazione due vie bellissime e silenziose. So che c’è un barboncino bianco dietro la ringhiera con il cartello “Attenzione! Cane da guardia addestrato!”.
La gioia di guardare i giardini degli altri va condivisa. Per questo ho creato una serie di Instagram Stories che si chiama proprio “Giardini Belli”: venite con me, vi porto a fare un giro al mattino presto tra le creuze del mio quartiere.
Poi però basta – la nonna Liliana
Il mese scorso abbiamo perso Luigi, il compagno di mia madre.
Questo mese la nonna Liliana, la madre di mia madre, anche lei portata via dal Covid-19.
Cercando di dare un senso a questa onda crudele che arriva e trascina via i nostri affetti più cari, voglio immaginare il virus come una specie di mostro che pretende un sacrificio umano da tutta la popolazione, e che deve essere saziato per essere colto nella sonnolenza postprandiale e finalmente sconfitto da una spada che lo taglia a metà, lo riempie di sassi e lo fa morire annegato (ok, sto mescolando il Minotauro con il lupo e i sette capretti).
La nonna aveva 94 anni e la demenza senile. Viveva in una casa di riposo nel Massachussets, quindi sì, era il sacrificio perfetto.
Però era mia nonna.
E non la vedevo da quasi quattro anni.
Questa è stata l’ultima volta: stavamo guardando delle marionette di stoffa fatte da lei.
Vi voglio raccontare della nonna Liliana.
Era una diva, dentro e fuori.
Nata bellissima, l’ultima di tre sorelle e di un fratellino morto a soli sei anni, dopo la guerra cominciò a fare la comparsa a Cinecittà. Quando dico bellissima non esagero per nepotismo: aveva zigomi da tagliarci la carta e sopracciglia naturalmente a forma di ali di gabbiano, che sollevava con charme à la Greta Garbo invece di dire “Ah, sì?”. Tyrone Power le faceva il filo sul set di un film di guerra, che non uscì mai perchè le distribuzioni decisero che la gente ne aveva abbastanza di tragedie; e Gerard Philippe su quello della “Certosa di Parma”. Orson Welles la invitò a cena.
ORSON. WELLES.
Conobbe il nonno John, giovane diplomatico americano stanziato a Roma, si sposarono subito e fecero tre figli in due anni e mezzo. Mio nonno era di origini irlandesi, e non so se conoscete l’espressione “irish twins”: sono i figli fatti uno dietro all’altro (gli ultracattolici irlandesi non praticano la contraccezione), tanto da sembrare gemelli; ecco, mia madre, mia zia e mio zio erano irish twins – tanta roba da gestire tutti insieme, anche se chi, come loro, viveva in un’ambasciata o un consolato poteva contare su tate e cameriere.
E per fortuna! Perché la nonna non era un tipo materno: era invece interessata all’arte, aveva uno straordinario occhio per le cose belle, era colta, brillante, arguta e creativa. Si faceva da sola vestiti con stoffe e modelli mai visti in giro; portava cappelli a tesa larga, mantelli e sciarpe dal piglio drammatico solo per andare al supermercato; dipingeva quadri e creava case di bambola per noi nipoti che sono pezzi da museo, dove ogni stringa di salsicce fatta con chicchi di riso pitturati e legati insieme e ogni centrino lavorato con aghi da cucito erano opera sua.
Nel circuito diplomatico internazionale i miei nonni dovevano costituire il cliché della power couple: lui serio e serioso e sempre preoccupato, lei istrionica, farfallona e al centro di una corte ovunque si spostassero, dai Caraibi alla Grecia, dall’Inghilterra alla Persia (ci avevano vissuto sotto lo scià: per loro non è mai stato Iran, ma Persia).
Ad ogni trasloco la nonna acquisiva pezzi di antiquariato ai miei occhi straordinari: statuine fenicie, vetri romani, samovar d’argento, gioielli stravaganti, specchi lavorati, porte di edicole per divinità animiste.
Non ho mai visto, neanche in un film di Woody Allen, case più belle di quelle che metteva su la nonna Liliana. Quando stavo con lei mi ci riempivo gli occhi e mi facevo raccontare pezzo per pezzo la storia di ogni oggetto. Il mio preferito è sempre stato una antica culla persiana che lei usava come porta-libri: me la sono fatta promettere in eredità fin da piccola, ma ora non so dove metterla. È grande quasi come un vero letto con un piccolo baldacchino, dondola, ed è in legno dipinto a fiori d’oro e colori caldi e bruciati… capite bene che serve un certo spazio per ospitare un mobile così!
Se non è stata una madre materna, è stata una nonna ideale: sono sicura che, tra noi sei nipoti, tutti abbiamo l’impressione di aver goduto di un rapporto unico e speciale con lei. Io so di aver avuto un vantaggio temporale rispetto agli altri, una sorta di imprinting dovuto al semplice fatto che sono stata la prima a nascere e che abbiamo anche vissuto insieme nel mio periodo di massima adorabilità, cioè intorno ai due anni. E infatti la nonna mi adorava, e io adoravo lei.
Il mio primo ricordo in assoluto è una sera in cui lei incastrava il grosso bottone della sua vestaglia di spugna verde (molto anni ’60) nel fianco fatto di rete del mio lettino, cosicché non poteva allontanarsi da me, esclamando “Oh, questo bottòn stupidòn!”. E io giù risate di pancia, strillando di delizia. Avrò avuto due anni scarsi.
Il momento più felice della mia vita, nel senso di felicità innocente, pura, senza responsabilità o pensieri o piani per il futuro (come quando ti rendi conto di essere innamorata e corrisposta, oppure come quando ti nasce un figlio – o un nipote!), me l’ha regalato lei quando avevo sei anni. Ed è stato un semplice toast imburrato che mi ha portato a sorpresa mentre guardavo la televisione avvolta in una coperta, nella sua casa di Londra (la più bella casa del mondo di tutti i tempi), inchinandosi come un cavalier servente e sollevandolo sopra la sua testa: “Per la principessa!”. Ancora oggi un toast imburrato mi pare una cosa troppo buona e speciale per potermela concedere: se ci metto sopra la marmellata mi sento più a mio agio. So stare al mio posto.
Passata l’età dell’adorazione cieca, abbiamo coltivato un’intesa speciale fatta di confidenze e sguardi complici, di chiacchierate che non annoiavano mai nessuna delle due, di scambi di vestiti.
Incredibilmente, pur perdendo la memoria fino a non sapere più dove si trovasse e a non riconoscere i suoi figli, la nonna Liliana non ha mai perso il suo senso dell’umorismo e la capacità di giocare con le parole come una linguista con tre lauree.
E nemmeno il suo fascino: si era fatta il fidanzato all’ospizio, e si abbracciavano e si baciavano tantissimo. E ci scherzava sopra.
Sento ancora la sua voce che mi chiama “Sashetta”, o “Saaaa” se era in un’altra stanza e voleva che andassi da lei. Le sue mani che mi lisciano i vestiti sui fianchi, mi mettono a posto una ciocca di capelli, mi fanno girare su me stessa per dare un giudizio complessivo prima di uscire. Il suono che faceva con il naso quando tirava su perché le veniva da piangere ogni volta che un aereo stava per separarci.
Sento la sua mancanza, ma la sento attorno, vicina: così come era una presenza non ignorabile da viva, lo è ancora oggi che fisicamente non c’è più.
Appendice: carrambata, 73 anni dopo
Dopo aver condiviso la storia della nonna Liliana su Instagram, ho chiesto a chi ne aveva voglia di raccontami dei suoi nonni.
E tra i tanti bellissimi ricordi che ho avuto il privilegio di leggere (la nonna di Monya che nascondeva i biscotti nella tasca del grembiule e li mangiava di nascosto davanti alla tv; i nonni di Silvia che le hanno insegnato a “accudire gli animali, rispettare la natura e giocare a carte”; la nonna di Tania vissuta tutta la vita in cascina, dove castrava i capponi a mano), c’è quello di Marzia e di suo nonno Mario Cinti.
“Mio nonno era uno scenografo: tutti i vecchi caroselli li ha fatti lui, Ben Hur, il primo Romeo e Giulietta del cinema… allora si usava il compensato. Non aveva studiato: una volta la laurea in scenografia non c’era, bastava sapessi lavorare il legno. Ha fatto la storia del dietro le quinte del cinema anni ‘50 e ’60, ma non compare in nessun scritto. Adesso i titoli di coda durano quanto un film e ci sono i nomi anche di chi spazza il pavimento… una volta c’era scritto il nome del regista e dei due attori principali. Questo è un mio grande dispiacere, lui era un grande ed ha lavorato coi grandi, era umile e grande lavoratore, ma nessuno sa chi sia se lo si nomina adesso. Era anche stato carabiniere a cavallo quando era giovane, ed era fiero dell’arma, aveva preso anche la malaria da militare in Sardegna. Per me sarà sempre un grande, il mio grande nonno che ha saputo amare tanto i suoi nipoti… tornava con ceste piene di funghi quando andavamo in montagna, partiva alla mattina presto. Sapeva far tutto, non so cosa non sapesse fare. Ora è solo nel mio cuore, è lì per sempre.”
Insomma, non è così improbabile che il nonno Mario di Marzia e la mia nonna Liliana si siano quindi incrociati in uno studio cinematografico. Mi piace immaginarli a chiacchierare seduti fuori da un teatro di posa, tra le altre maestranze, con il loro cestino del pranzo…