Indice
- Ogni mese vi racconto le cose che mi hanno colpito: nel bene soprattutto, ma anche nel male. Il cane di Steinbeck, il coraggio di mio figlio, il pane brutto, il cioccolato bello e la parabola del catino hanno segnato il febbraio del 2017.
- 1° cosa bella – ha stato il cane
- 2° cosa bella – quello che si impara dai figli
- 3° cosa bella – il pane brutto
- 4° cosa bella – il migliore cioccolato del Salon Du Chocolat
- Una cosa che anche no – o il cartellino o il catino
Ogni mese vi racconto le cose che mi hanno colpito: nel bene soprattutto, ma anche nel male. Il cane di Steinbeck, il coraggio di mio figlio, il pane brutto, il cioccolato bello e la parabola del catino hanno segnato il febbraio del 2017.
1° cosa bella – ha stato il cane
“Cara Signora Otis,
è successa una piccola tragedia. Non so se glielo ho già detto.
Il mio cucciolo di setter, lasciato solo una notte, ha ridotto in coriandoli metà del manoscritto del mio libro (Uomini e topi). Due mesi di lavoro da rifare. Un ostacolo che mi fa perdere tempo. Non c’era altra versione. Ero piuttosto arrabbiato, ma il poveretto potrebbe aver agito in maniera critica. Non volevo rovinare un buon cane per un manoscritto della cui qualità non sono affatto sicuro. Si è solo preso un’ordinaria sculacciata con la paletta schiaccia-mosche delle punizioni. Ma c’è tutto il lavoro da rifare dall’inizio…
Immagino che il nuovo piccolo manoscritto sarà pronto in circa due mesi. Spero che non la farà arrabbiare. Penso che ci sia qualcosa [di buono] ma non posso dire molto ancora.
Sarà meglio che spedisca questa. Sento il postino.
John Steinbeck”
Non voleva rovinare un buon cane. Sente il postino.
Ho sempre pensato che il premio Nobel Steinbeck avesse toccato il cuore più rosso della natura umana con Furore.
Poi ho scoperto, leggendo una lettera scritta al figlio al suo primo innamoramento, quanto cuore avesse lui come uomo.
Adesso vien fuori che ci ha pure lasciato un capolavoro mai citato nelle antologie, non insegnato nei corsi universitari di letteratura americana, e ciononostante conosciuto e usato in tutto il mondo ogni mattina che Dio mette in terra: l’immortale “il cane mi ha mangiato i compiti, Signora Maestra”.

Photo © Bettmann/Corbis via New York Times
2° cosa bella – quello che si impara dai figli
“Finalmente mi succede una di quelle cose che succedono solo agli altri”.
Questo è stato il commento di mio figlio Pietro quando il radiologo ci ha detto che aveva un polmone collassato e che dovevamo andare subito in ospedale senza passare dal Via.
(Per la cronaca: “la cosa che succede solo agli altri” è un pneumotorace, ovvero un polmone che si buca spontaneamente e collassa; succede tipicamente ai ragazzi tra i 15 e i 25 anni alti e magri. Pietro è 1.88 per 55 chili, quindi gli altri è lui, non c’è beneficio del dubbio).
Pietro ha 18 anni e fa il comico. No, sul serio – non l’anima della festa, quello con la chitarra davanti al falò, o il buffone della classe: ogni due settimane sale su un palco sotto la scritta ZELIG e si esibisce con un monologo scritto per l’occasione.
È una persona divertentissima, dotata di un ficcante spirito di osservazione, troppo sensibile per il suo stesso bene, periodicamente preda di umori bui. Insomma, un vero comico, come da manuale.
Da lui, che dei tre è sempre stato il figlio più mammone e quindi il candidato ideale ad essere visto perennemente come il piccolo da proteggere, educare e coccolare, ho imparato cose che non mi ha insegnato nemmeno mio nonno che, essendo nato nel 1916 in una famiglia di noti antifascisti, come uomo tutto d’un pezzo non scherzava.
Ma Pietro…
L’ho visto, a soli 12 anni, affrontare uno per uno tutti i compagni della sua classe che con uno spregevole atto di cyberbullismo avevano creato una pagina Facebook che inneggiava alla sua morte e in cui il suo “migliore amico” raccontava di come gli avesse passato i compiti sbagliati per fargli prendere una nota. Con il cuore spezzato dopo averlo scoperto, ha telefonato a tutti chiedendo cosa aveva fatto per meritarlo e se doveva scusarsi di qualcosa.
L’ho visto, a 15 anni, decidere che aveva bisogno di un aiuto professionale per equilibrare i suoi umori bui, e scegliersi un terapeuta, e poi un altro perché il primo non andava bene, e programmarsi le sedute e gestire in totale autonomia e privacy il suo percorso.
L’ho visto, a 18 anni, annunciarci che avrebbe fatto i provini per Zelig per provare ad intraprendere una carriera di autore che nessuno gli aveva mai suggerito (a parte i miei “come scrivi bene” di area “che madre badessa!”), e andarci da solo (senza la mamma fuori che fa la Anna Magnani di Bellissima), e farcela da solo – per affrontare una timidezza così radicata che prendere un appuntamento per telefono è per lui un martirio da santo-subito.
Pietro è la lezione di coraggio, resilienza e di “fare di necessità virtù” che ti aspetteresti da un 81enne, non da un 18enne.
E te lo insegna facendoti ridere.
Pietro – “Quindi mi apre il polmone?”
Chirurgo – “Un’operazione di routine…”
Pietro – “Sì, ma l’ultima volta che ho controllato il polmone stava in cima alla lista degli organi vitali. Mi serve. Ci faccio delle cose”.

3° cosa bella – il pane brutto
A Genova, dove vivo, ci sono tante cose buone da mangiare: le trofie e il pesto, i corzetti, i pansotti al sugo di noci, la focaccia, le gallette del cappon magro, il pandolce…
Tante cose buone che si fanno con la farina.
Eppure, a Genova, la prima cosa che in tutto il mondo si fa con la farina, e cioè il pane, beh, a Genova il pane fa schifo.
Trollatemi, aspettatemi sotto casa, stalkerate i miei figli all’uscita di scuola se la mia posizione anticampanilistica vi fa arrabbiare, ma ho ragione e lo sapete.
Il pane qui è caro, insapore e stupido. Se non siete zeneisi, venite a Genova e fatevi dare un “libretto” nel primo forno che incontrate, se non ci credete.
Per fortuna abbiamo la possibilità di fare incetta di “pane brutto”, un pane di biga fatto con farina, crusca e mais, cotto nel forno a legna, con la crosta bella croccante e un sapore così buono che si fa mangiare a pagnotte intere anche appena tirato fuori dal freezer.
Il pane brutto è tipico della zona di Camaiore e Viareggio, e il più buono lo fa il fornaio viareggino Bè mi tempi (in italiano: come si stava bene una volta!).
È sempre un momento commovente quando viene in visita mia madre con un sacco di carta gialla alto quasi quanto me, e quei sette-otto chili di pane brutto da fare a pezzi e congelare. Mi sembra di vedere arrivare gli alleati a liberarmi dall’occupazione e dalla fame. È come se piovessero cioccolate, caramelle e sigarette e per strada risuonassero le canzoni di Benny Goodman.
Quindi, segnatevi questo prezioso consiglio: se passate da Genova, il pane è bellino ma cattivo. Se passate da Viareggio, il pane è brutto ma tanto, tanto buono.
4° cosa bella – il migliore cioccolato del Salon Du Chocolat
Chiariamoci subito: non sono una talebana del brutto ma buono.
Il bello attira subito la mia attenzione come quella di chiunque altro, e anche se mi ritengo ormai abbastanza matura da saper assaggiare qualcosa e valutarne la piacevolezza senza lasciarmi influenzare dal suo aspetto, sono la prima ad apprezzare un bell’impiattamento o un bel packaging.
Al Salon du Chocolat di Milano (9-12 febbraio) sono andata alla ricerca di piccoli gioielli da portare a casa e da poter possibilmente ritrovare comprandoli online – perché non c’è niente come la scimmia da cioccolato che non puoi avere.
Queste sono le cose più buone e più belle che ho trovato.
Best in show: semi di mais tostato e salato versione dragé di Cecilia e Paul (ora a Perugia, già De Bondt a Pisa: bellissimo ritrovarli!) – dolci, amari e salati. Fuori-di-testa.
Semi di cacao dragé di Cecilia e Paul. Un velo di caramello, un accenno di peperoncino. Croccanti, forti, adulti.
Tartufini al pistacchio di La Perla, Torino. Ho scoperto solo negli ultimi mesi questa prelibatezza sabauda (quelli dell’Antica Torroneria Piemontese li ho inseriti nei 9 prodotti che ho scoperto quest’anno e che non lascerò mai più). Perché non lo sapevo, prima? Hanno questa forma a quadrifoglio, sono dolci e delicati, e si sciolgono al calore del palato… meglio tardi che mai!
La foresta di Gay Odin! 15 anni dall’ultima volta che l’avevo mangiata, proprio a Napoli, in una delle sedi storiche dell’antica cioccolateria partenopea. Non me l’ero mai tolta dalla testa, questa sfogliata friabilissima di cioccolato al latte. Un vero appassionato deve provarla almeno una volta nella vita!
Il tartufo di nocciole di Stringhetto. Praticamente una merenda intera. Bravi, è così che si fa!
I croccantini di Antonio Autore. Quello al mandarino = felicità.
La ghianda di Gay Odin – è veramente molto dolce, mi piace il suo concetto così vintage di un guscio di wafer che contiene un cuore cremoso.
Ancora Cecilia e Paul. Forse non tutti sanno che sono stati loro ad aver inventato anni fa le tavolette di cioccolato incastonate con la frutta secca che ora imitano tutti (il salone, ma che dico, il mondo ne è pieno). Queste hanno la dimensione di un iPad, pesano 550gr e costano 30€. Bellissime.
E chiudiamo il cerchio con il banco di praline di Knam. Si lasciano guardare… o no?
Una cosa che anche no – o il cartellino o il catino

“Ma un braccialetto?! … Allora vuol dire che non mi ascolti proprio. Una Gucci, con una Gucci cadi sempre in piedi, non sbagli!”
“O Prada, o una Louis Vuitton. Anche un portatelefono!”
“Michael Kors costa meno, con 400 euro prendi una borsa, ma mi hanno detto che come pellame non va”.
“Io Burberry’s”.
In inglese c’è un termine che definisce perfettamente le quattro amiche sedute nel mio scompartimento, e che da mezzora si stanno lamentando dei regali di San Valentino che i mariti ancora non hanno scelto per loro: nagging wife.
La nagging wife è la moglie che sfinisce di critiche e ordini, a cui non va mai bene niente, insistente, permalosa, vittimista, rancorosa.
È la moglie del pescatore della fiaba Il pesciolino d’oro di Tolstoj, che prima vuole un catino, poi una botte, poi una casa, poi un palazzo, poi vuole essere zarina, poi rompe tanto i coglioni con la sua escalation di insoddisfazione e ingratitudine che il pesciolino d’oro dice sai che c’è, mangiati un po’ ‘sta mmerda, e le toglie tutto, anche il catino.
Le signore mai-una-gioia sul mio treno continuano a fare la tassonomia dei prezzi di bauletti, shopper, custodie per occhiali, 24 ore, pochette e secchielli griffati. Non è quel modello di quel colore di quella dimensione che gli piace perché sta bene con quella giacca: quello che vogliono è un cartellino con un prezzo da portare appeso alla spalla, un prezzo che la collega e la cognata possano riconoscere immediatamente.
È la borsa, bellezza, ma quella di Piazza Affari, non delle vie del centro. Non serve a portarsi dietro le chiavi, gli occhiali e il fazzoletto: per quello, basterebbe un catino.
Se solo i mariti gliene regalassero uno per San Valentino.